Ci sono dischi che nascono più per esigenze personali che per rivolgersi al pubblico. Non è necessariamente un male, anzi, anche se per l’artista si rischia magari di non essere compresi, soprattutto dal punto di vista commerciale. Ma è un grande atto di onestà e di coraggio, esporsi comunque, mettersi a nudo, ed è quello che la miglior musica chiede, essere condivisa.



Nel caso in questione, quello del nuovo disco della cantautrice Amy Speace (inciso  e composto con i bravi componenti di uno dei più interessanti gruppi di alternative folk, gli Orphan Brigade), che aveva esordito anni fa con un rock spigliato dalle venature country, siamo davanti a un pegno da pagare, riappacificarsi con la figura del padre, morto recentemente, con il quale l’artista aveva avuto per tutta la vita un rapporto tumultuoso di amore-odio. Se ci aggiungiamo che in questo anno di lutto la cantautrice ha dato al mondo il primo figlio, già sulla soglia dei 50 anni, capiremo che è un disco catartico in tutti i sensi. Benché Aimy Speace sappia bene cosa voglia dire produrre un disco (ne ha già prodotti quattro dei suoi) la connessione ottenuta con gli Orphane Brigade è stata come ottenere qualcosa in più: “Se stai registrando dal vivo con altri musicisti, c’è un altro partner nella stanza. E’ quello che chiamo lo spirito universale. Quando si manifesta, tutti sentono come dei brividi sulla pelle. C’è come un’energia che sta vibrando,  finisci la registrazione e tutti si guardano, tipo “Cavolo, dove siamo appena arrivati?”. Penso che sia qualcosa di spirituale. Come andare in chiesa, per me è come una droga”. Il risultato in questo disco, questo spirito universale che si manifesta nelle canzoni, è evidente.



E’ ovvio che le atmosfere musicali con la quale si costruisce un lavoro del genere assuma tinte intimiste, minimali. Il disco infatti si regge su pochi strumenti acustici, chitarre e mandolino, un pianoforte e l’accompagnamento di un quartetto d’archi capace di suonare come una intera orchestra. Lo strumento principe è allora la bella voce di Amy, che ricorda quella altrettanto vellutata e calda di Mary Chapin Carpenter.

Se il disco contiene brani talmente intimi che sembra di disturbare, entrare in una sfera che non ci è dato di varcare (il brano iniziale Down the trail e la toccante Father’s day, pezzi in cui la voce del padre si alterna alle memorie della figlia), c’è spazio anche per irresistibili brani puramente southern-gospel, dove Amy e gli Orphan Brigade si ergono a vette vocali spettacolari, come Hallelujah train e River rise: sembra quasi di ascoltare Mavis Staple e una liturgia irresistibile in una chiesa del sud degli States.



Il disco si chiude con una cover, Don’t let us get sick, dello scomparso Warren Zevon, che ha tutto il senso di una testimonianza, quella di chi è passato in un oceano di dolore e può adesso reggersi in piedi davanti al mondo: “Non farci ammalare non farci invecchiare non lasciare che diventiamo stupidi, va bene? Facci solo essere coraggiosi facci giocare bene e lascia che stiamo insieme stanotte” (il disco contiene un libretto con tutti i testi tradotti in italiano).