Mentre nuove regioni cambiano di… colore e a macchia di leopardo lungo la penisola italiana vengono adottate, d’intesa tra Roma e le istituzioni locali (anche se non mancano le polemiche), nuove misure per il contenimento di quella che oramai può essere definita come la tanto temuta seconda ondata della pandemia da Covid-19, più di qualcuno si chiede come funzioni la cosiddetta analisi del rischio epidemico e quali siano gli indicatori di cui bisogna tenere conto. A tal proposito, nelle ultime ore, sul proprio sito l’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato un documento riassuntivo che, ricorrendo pure a delle infografiche, prova a illustrare i criteri del meccanismo: indicati già da un decreto firmato da Roberto Speranza, Ministro della Salute, lo scorso 30 aprile, i 21 indicatori totali sono i “termometri” che aiutano i tecnici a valutare l’andamento dell’epidemia nel nostro Paese e nel caso a intervenire tempestivamente in modo che questa resti entro soglie controllabili; il suddetto sistema serve inoltre per classificare le aree di riferimento in base al rischio -da molto basso a molto alto- tenendo ben presente pure i differenti servizi sanitari a livello locale in Italia. Andiamo ad analizzare nel dettaglio come funziona l’analisi di rischio epidemico.
ISS, COME FUNZIONA “L’ANALISI DEL RISCHIO EPIDEMICO”?
Nel documento pubblicato sul portale dell’ISS (a questo link il .pdf riassuntivo con tutti gli indicatori) si spiega come nella raccolta dei dati e successiva classificazione siano coinvolti Ministero e una cabina di regia che comprende lo stesso Istituto e le Regioni: “Frutto di questo lavoro sono report nazionali e regionali condivisi con le autorità sanitarie competenti” si legge ancora mentre a proposito del ricorso a indicatori plurimi si motiva la scelta col fatto che nelle emergenze sovente i dati risentono del sovraccarico che grava sui sistemi sanitari. “In epidemiologia si considera maggiore la solidità di un’analisi quando più fonti di informazione confermano una stessa tendenza” continua il documento che poi entra nel merito dei fattori di valutazione. Dei 21 indicatori, sono considerati “obbligatori” 16 mentre gli altri 5 sono ritenuti “opzionali” e servono a stimare tre diversi aspetti ovvero: la probabilità della diffusione, l’impatto e infine la resilienza a livello territoriale. A livello del primo si tiene conto dell’aumento dei casi rispetto alla settimana precedenza, dell’indice Rt, dell’aumento dei focolai e dei criteri di autovalutazione.
21 INDICATORI PER VALUTARE DIFFUSIONE, IMPATTO E RESILIENZA TERRITORIALE
Passando invece all’aspetto dell’impatto, vengono considerati criteri qualitativi, la percentuale dei posti letto occupati e l’aumento dei casi tra i soggetti con più di 50 anni; invece, in merito alla resilienza territoriale, l’ISS cita come fattori l’aumento della percentuale dei positivi al tampone, il numero sufficiente di risorse umane disponibili, la capacità di effettuare indagini epidemiologiche e un altro criterio aggiuntivo (i segnali di criticità riportati dalle Regioni). Successivamente alla raccolta dei dati si verifica il superamento o meno per ognuno di essi di determinate “soglie di allerta” e poi viene effettuata un’analisi che tiene conto di due algoritmi, dei quali uno riguarda la probabilità della diffusione e l’altro l’impatto. “Combinando i risultati di questi in una matrice di rischio si calcola il livello del rischio stesso” si legge e nel caso in cui si riscontrino tante allerte sulla resilienza territoriale ecco che il livello di rischio viene innalzato. Da qui inoltre l’individuazione, già dallo scorso agosto, di 4 scenari diversi di trasmissione in vista del periodo autunno-invernale e con misure di contenimento diverse per ciascuno di essi. In sintesi, un meccanismo non certo semplice nel suo funzionamento ma che punta sulla molteplicità degli indicatori per evitare errori di valutazione e prendere in maniera tempestiva delle contromisure all’evolversi dell’epidemia.