Oltre la tempesta è il titolo dal chiaro significato del nuovo libro di Paolo Crepet, psichiatra, scrittore e sociologo, in uscita nel mese di maggio. Un libro in cui il professore farà il punto su che mondo ci aspetta dopo la “tempesta” del Covid e su ciò che diventeremo. Le domande che ci poniamo  sono tante, le paure anche, l’incertezza e i danni prodotti ad esempio dall’interruzione della didattica in presenza, un provvedimento contro cui Crepet si scaglia senza esitazione: “Abbiamo distrutto la scuola, abbiamo fatto perdere un anno secco ai nostri ragazzi, non crederà certo che dopo la Pasqua le scuole riapriranno, stanno tirando ad arrivare a giugno”. Anche lo smartworking per Crepet è un danno: “Le aziende dovrebbero abolirlo. Non si può lavorare senza una presenza fisica e concreta, induce a uno stato di demoralizzazione e di depressione. Manca l’essenziale”.



Quando si parla di dopo-Covid, la frase che si sente dire di più è “ritorno alla normalità”. Ma di quale normalità parliamo?

Anche la normalità economica è di difficile interpretazione: avevamo il debito più poderoso del mondo, adesso ce lo abbiamo ancora più grande.

Lasciando stare l’aspetto economico, tutti speriamo che chi non lavora da un anno possa tornare a farlo, ma prima del Covid stavamo tutti così bene? La pandemia non doveva provocare uno scatto per un cambiamento di ognuno di noi?



Il suo punto di vista è molto ottimistico: gli italiani non sono così rivoluzionari, non amano i cambiamenti. Dovremmo aspettarci un cambiamento, ma credo che gran parte delle persone stesse bene. Quando dicono così esprimono questo, la voglia di copia e incolla della vita precedente.

Lei ha detto che dobbiamo ripartire dalla scoperta della nostra vulnerabilità. Sembra che la gente invece di scoprire la propria vulnerabilità sia solo in cerca di un nemico immaginario, dai colori delle zone alla chiusura dei bar, che ne pensa?

L’impressione che ho sviluppato negli ultimi mesi è molto amara. Non credo rappresenti la media degli italiani, ma solo sentir dire “i vecchi che cosa li vacciniamo a fare, se muoiono stiamo meglio” è parte di quella tracotanza, onnipotenza, mancanza di umiltà che ci caratterizza. La cosa importante da fare è sapere che dobbiamo fare i conti con una Italia che contempla cose dette cento anni fa.



Cioè?

La stessa cattiveria che ha portato gli italiani alle leggi razziali, spostando l’obbiettivo. Oggi ce l’abbiamo con chiunque: abbiamo rinchiuso i bambini in casa con la Dad, gli anziani lasciati nelle Rsa a morire. Dobbiamo porci la domanda:  questo è il mondo in cui vogliamo vivere?

Spero di no, ma sembra che la gente si lasci scivolare tutto addosso, no?

Dobbiamo farci sentire, la libertà è basata sulla capacità di indignarsi.

Tante  volte ci si indigna su banalità imbarazzanti però.

Non sto dicendo che mi devo indignare perché la squadra della Ferrari ha fatto il vaccino prima degli ottantenni, anche se dovrei. Lasciamo un attimo da parte il virus e guardiamo alla nostra umanità, da quella dobbiamo ripartire. Una volta che avremo l’effetto gregge, quale gregge vogliamo?

Ce lo dica lei.

Ognuno deve saperlo per sé. Io ad esempio mi arrabbio con tutte le forze contro la Dad anche se tanti miei colleghi l’adorano, ne descrivono le bellezze. Non penso di cambiare il mondo però mi indigno.

Lei ha la professionalità per farlo, ma qua vediamo gente che si indigna perché non può fare l’happy hour, o no?

Non possiamo pensare di essere tutti uguali. Ci sono studi che dicono che il famoso effetto Flynn (l’aumento del valore del quoziente intellettivo medio della popolazione nel corso degli anni, ndr) si sia invertito, sia in fase calante. Insomma, per dirlo come diciamo noi veneti, stiamo diventando tutti un po’ più “mona”. Accadono cose incredibili: gruppi di professionisti adulti, non ragazzini, che organizzano su WhatsApp cene clandestine. Questa è la realtà.

Diversi suoi colleghi parlano di “ansia da rientro”, secondo diversi sondaggi parecchie persone si sono trovate bene in smartworking perché hanno subito meno stress, meno pressione da parte dei capi. È un fenomeno che ha notato anche lei?

Non si può mai generalizzare. Ci sarà chi avrà l’ansia del rientro ma tanta gente non ne può più dello smartworking. Io stesso non ne posso più di fare seminari con il computer dove è come parlare con nessuno. Ho bisogno di vedere delle facce.

L’uomo non è un’isola, si diceva così no?

Le aziende dovrebbero essere le prime che dovrebbero abolire lo smartworking. Ci sarà anche il capo che ti stressa, ma è la vita, c’è anche il collega simpatico con cui vai a prendere un caffè. Non possiamo pensare che il lavoro sia una tomba tecnologica, dobbiamo risorgere. Il  mio amico Mario Brunello, famoso violoncellista, mi spiegava cosa significa fare musica in streaming.

Cosa le ha detto?

Dal punto di vista tecnologico è perfetto, poi ti giri e non vedi nessuno. È deprimente mi ha detto. C’è la mancanza dell’essenziale.

La relazione che si instaura tra pubblico e musicisti, immagino.

Esatto. Mozart in streaming non avrebbe scritto niente, Paganini cambiava il modo di suonare a seconda del posto in cui si trovava e anche dal suo umore cambiava la musica.

(Paolo Vites) 

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