Ma che razza di solitudine deve vivere un ragazzo di 19 anni, come Andrea Prospero, per accettare come amico uno che, dall’altro capo dello smartphone, lo convince in tutti i modi ad ingerire benzodiazepine ed ossicodone acquistati da un altro sedicente amico? Che dolore ci deve essere in un legame così malato da perseguire coscientemente la morte o venderla a buon mercato, ma a caro prezzo?
La vicenda di Andrea Prospero, universitario originario di Chieti ma frequentante a Perugia, sedicente amico di uno studente conosciuto online ed originario di Roma, travolge ogni umana comprensione e scaraventa chiunque la ascolti nell’abisso in cui tanti ragazzi sono immersi, incapaci di chiedere davvero aiuto, convinti di non avere nessuno a cui tendere la mano.
Andrea Prospero aveva confidato “ansie e insofferenza” rispetto alla vita universitaria al giovane conosciuto in rete, il quale – secondo la procura umbra – lo avrebbe “più volte incitato e incoraggiato” a ingerire i farmaci che l’avrebbero portato alla morte, sostanze acquistate da un terzo ragazzo – residente in Campania – trovato in possesso di ingenti quantitativi di denaro.
Si tratta di una storia con tutti gli elementi che spesso connotano gli anni complessi dell’università: il percorso accademico come una continua misura di sé stessi, la fatica a comprendere se la strada intrapresa è quella giusta, il disagio per una vita che corre e che non si sa ancora bene dove andrà a parare. E poi la fatica nei legami reali, la ricerca di contatti virtuali che permettano – dietro la tastiera dello smartphone – di potersi parlare con quella libertà che dal vivo sembra sempre più impossibile.
E dall’altro capo un ragazzo come tanti, Andrea Prospero, figlio di un contesto che l’indagine definisce socialmente normale, che preme per poter trovare soddisfazione nell’esercitare il proprio potere di vita e di morte sul nuovo “amico” incontrato. Un atteggiamento patologico, fortemente narcisistico, ma non infrequente in un mondo in cui i profili online nascondono i volti lasciando in bella vista gli appetiti.
Solitudine, tristezza, insoddisfazione, ricerca spasmodica di un piacere capace di colmare le brame del cuore: ci sono tutti gli ingredienti della giovinezza, tutte le componenti che dovrebbero portare le persone a costruire dialoghi, legami, capaci di supporto reciproco, di ascolto e di comprensione, ma che invece generano una forma crudele di amicizia, dove il dolore dell’altro smette di essere percepito e tutto diventa un gioco, tutto si presenta come una splendida opportunità di esercitare un controllo capace di farti sentire dio.
Gli adulti, in questa storia, arrivano dopo. Dopo la morte di Andrea Prospero. Arrivano con il loro dolore sconfinato, con l’avvocato che richiede giustizia, con l’incomprensibile enigma di un figlio che adesso non c’è più e che è stato portato alla morte da qualcosa di misterioso e arcano. L’intensità della solitudine, in questo lungo calvario, misura esattamente la distanza tra la vita di Andrea e l’immagine che il ragazzo si era fatto di come quella vita doveva essere. La delusione ne colma lo spazio e l’angoscia ne amplifica tutto il dolore.
Si può dunque essere amici per la morte. Una novità del nichilismo, di chi crede che immergersi nel nulla possa portare via anche un solo goccio del dramma dell’esistenza. In un mondo fatto di privacy, di diritti, di confini da rispettare, nessuno osa più entrare davvero nella vita degli altri e i nostri ragazzi sono pieni di amici, ma non hanno nessuna compagnia, nessuna strada su cui camminare.
Non si risponde a tutto questo orrore denunciando gli abissi del web o invocando che queste cose non accadano più. La risposta vera sta nella capacità di costruire luoghi, case, dimore, in cui l’amicizia sia possibile, in cui la solitudine sia abbracciata, in cui l’ansia cessi di essere un’obiezione al bene. È di una casa così che Andrea sentiva la nostalgia. Ed è per un desiderio di questa portata che ha ceduto al primo amico che sembrava poter reggere tutto il peso della sua domanda.
Quello che non poteva sapere è che ci sono persone che si nutrono del dolore degli altri. Persone malate, in balia di sé stesse. Che non riescono a dirti altro che devi morire. Perché in fondo, per tutti questi tre ragazzi, ciò che era perduto è il senso del vivere.
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