“Era un lavoratore instancabile, arrivava al mattino e quando non aveva impegni alle 20 era ancora in ufficio. Controllava tutti i dossier e la catena gerarchica funzionava perfettamente”. L’immagine lusinghiera di un Giulio Andreotti presente, preciso ed efficiente emerge ancora negli anni Ottanta dalle parole di un impiegato della Farnesina, quando ricopre, tra il 1983 e il 1989, la carica di ministro degli Esteri. Anche con De Gasperi, alla presidenza del Consiglio, il lavoro non manca. Per le deleghe al Turismo e spettacolo e Sport, Affari regionali, Rapporti col Parlamento, Riforma dell’amministrazione, Revisione delle epurazioni “oggi ci vogliono almeno 3 ministeri e alcuni sottosegretari, mentre io me ne occupavo da solo” precisa Andreotti in un’intervista degli anni Novanta del secolo scorso.
Ha imparato da De Gasperi a non prendere sottogamba il proprio impegno perché la responsabilità e la politica erano elementi inscindibili. “Guardate, ci diceva spesso il presidente, la tentazione di poter prescindere dalla durezza dei problemi esiste sempre, le cose vi danno l’idea di andar bene, ma è meglio che ve lo leviate dalla testa. Cercate invece di camminare al contrario”.
Occuparsi di Spettacolo e di Sport è però anche un piacere. Di fede romanista sin da piccolo, anche la settima arte è la passione di una vita. Da bambino “vidi per tre volte il film Dottor Jekyll e Mister Hyde. Mi colpiva come la stessa persona potesse avere un doppio volto. Nel grande schermo e nella vita” ricorda Andreotti, mentre la figlia Serena rivela come il padre aveva una lunga amicizia con Italo Gemini, esperto di cinema e proprietario di importanti sale cinematografiche come il Capranica e il Giulio Cesare. “Sino agli anni Ottanta si ritrovavano la domenica pomeriggio nei pressi del Capranichetta, in una sala dell’Associazione Generale Italiana dello Spettacolo (Agis) di cui Gemini era presidente, assieme ad alcuni amici, per vedere i film del momento, una partita a carte e la cena”.
Nel dopoguerra c’è tutto da ricostruire e De Gasperi ha dato carta bianca al suo sottosegretario per rimettere in piedi la produzione cinematografica italiana. Il compito è arduo, anche perché a guerra appena finita lo strapotere di Hollywood è dominante. Gli studi di Cinecittà sono distrutti, depredati dai nazifascisti che hanno portato via tutte le attrezzature verso il nord Italia e la Germania, bombardati dagli alleati e dopo il giugno 1944 requisiti per ospitare tantissimi sfollati.
Giulio Andreotti nel 1947, accompagnato da Tito Marconi, presidente di Cinecittà e dal giornalista Gian Luigi Rondi, fa la prima visita agli sfollati giuliani, ma ci sono anche quelli libici, che lo accolgono con diffidenza. È un’operazione delicata che vedrà il progressivo trasferimento dei rifugiati nell’ex villaggio operaio che era servito per la costruzione dell’Eur. Poi uno stanziamento ad hoc e la ripartenza degli studios. Il primo film girato a Cinecittà è Cuore di Duilio Coletti e poi arriveranno gli americani con una produzione ambientata nell’Italia medievale (Il principe delle volpi di Henry King, 1949) permettendo l’inizio della cosiddetta Hollywood sul Tevere.
L’Italia ancora contadina e piccolo borghese che si lasciava alle spalle la fame e la guerra ricomincia a sognare e assieme alle opere neorealiste e ai kolossal statunitensi fa i conti con il passato e guarda con fiducia al futuro. Oggi non possiamo non riconoscere come il merito debba andare all’opera di due politici cattolici lungimiranti: De Gasperi e innanzitutto Andreotti, che per cultura e costumatezza un po’ diffidano del mondo di celluloide, effervescente e anche un po’ licenzioso, fatto da attori e attrici famose, registi, lustrini e paillettes.
Alla prima edizione del cinema di Venezia, De Gasperi dice ad Andreotti: “porta Livia con te e ti raccomando di non essere frivolo” per non dare adito a pettegolezzi. A vederle oggi colpiscono le immagini del giovane sottosegretario, aitante, che scende con la moglie dall’areo che lo porta da Roma, oppure quando compare in smoking bianco alle cerimonie ufficiali del festival.
Più incisivi poi sono i decreti legislativi a sostegno del cinema. All’inizio del 1949 i film stranieri rappresentano circa il 90 per cento delle proiezioni cinematografiche e svariati appelli e manifestazioni delle maestranze chiedono attenzione. Al grande raduno di Piazza del Popolo a fine febbraio, Anna Magnani termina il suo appello con un fragoroso “aiutatece” in romanesco. Il governo se ne fa carico e Andreotti cura l’iter della legge 448 approvata a luglio del 1949 che istituisce un fondo speciale per il credito cinematografico e disciplina la circolazione dei film prodotti all’estero e doppiati in lingua italiana. La cosiddetta tassa sul doppiaggio, come precisano Franco Montini ed Enzo Natta in Una poltrona per due (Effatà 2007), prevede che per ogni film straniero in circolazione si debbano versare 2 milioni e mezzo di lire, mentre il produttore per ogni film realizzato in Italia possa distribuirne un altro senza pagare la tassa del doppiaggio. Il provvedimento è un successo perché quella par condicio distributiva permette agli americani di reinvestire i proventi degli incassi in produzioni a Cinecittà, usufruendo tra l’altro del cambio favorevole e del basso costo della manodopera qualificata. La legge 959 approvata sempre alla fine di quell’anno pone l’attenzione agli aspetti industriali del cinema per un rilancio strutturale ed economico, in stretta reazione con la riapertura di Cinecittà dell’anno precedente. Ed ecco che si producono generi più disparati, come la commedia, il dramma, con opere di Risi, Monicelli, Matarazzo e poi il cinema d’autore con Visconti, Fellini, Antonioni. Nel 1954 si arriva a produrre ben 150 film e l’anno prima ben 42 pellicole sono esportate nel mercato Usa.
L’Istituto Luce nel 1945 era stato messo in liquidazione subendo l’epurazione dei quadri, per effetto della vicinanza alla propaganda del regime, ma con la legislazione del 1949 si dà la possibilità di salvarlo, permettendo di produrre documentari e cinegiornali e contemporaneamente sono rimessi in funzione i laboratori di sviluppo e stampa.
Oggi si capisce che quel mondo era sotto i riflettori: da una parte la cultura progressista mal sopportava l’istituto della censura e dall’altra la Chiesa voleva tenere a freno l’immoralità dilagante rappresentata dalla cultura relativista e materialista di stampo americano. Andreotti capisce che bisogna stare nel mezzo e utilizzare grandi dosi di realismo. L’accusa di moralismo è dietro ogni pellicola, anche se Rodolfo Sonego, capo partigiano e sceneggiatore di Alberto Sordi, ha rimproverato gli intellettuali di sinistra, che da decenni vanno per la maggiore nelle pagine culturali e di critica, dicendo loro di non aver capito nulla: “Andreotti ha ammazzato 5 film e ne ha fatti fare cinquemila”.
Purtroppo i giudizi culturali relativi alla Prima Repubblica sono ancora legati a quello che seppe esprimere l’intellighenzia comunista, che metteva in pratica la dottrina Gramsci e che è approdata sino agli anni Settanta; essa ha fatto prevalere il proprio criterio propagandistico grazie al quale Giulio Andreotti, essendo un baciapile e un democristiano, è stato per forza un sostenitore della censura più intransigente. Niente di più falso.
Tatti Sanguineti è divenuto un estimatore di Andreotti dopo aver coprodotto assieme all’Istituto Luce due preziosi documentari-intervista, Giulio Andreotti. Il cinema visto da vicino del 2014 e Andreotti la politica del cinema del 2015. La damnatio memorie a cui è stato sottoposto il senatore a vita dopo i processi per mafia ha fatto il suo corso e la Rai non li ha mai mandati in onda. Ora sono quasi introvabili e l’Istituto Luce li ha sepolti nel proprio archivio. In un’intervista Sanguineti, sagace come sempre, ha dichiarato che “Andreotti era un trattativista: transava su una tetta, su un culo, bocciava una battuta politica. Nato povero, figlio d’un maestro, aveva un rispetto estremo dell’investimento capitalista. Fece riaprire il festival di Venezia, nel ’47 e nel ’48 lo portò al Lido”.
La sequenza della rinascita del cinema italiano e della Hollywood sul Tevere è lunga. Qui piace ricordare la trilogia di Pane, amore e fantasia, i kolossal e gli americani Quo Vadis, Vacanze Romane, Ben Hur e Cleopatra, per approdare, grazie alla rifondazione di Cinecittà, ai film di Fellini, come La dolce vita e Amacord, pellicole girate prevalentemente nella città del cinema, affacciata su via Tuscolana.