Andriy Shevchenko, ex attaccante del Milan e attuale commissario tecnico dell’Ucraina, è intervenuto nella puntata di ieri, domenica 2 maggio 2021, di “Che Tempo Che Fa”, trasmissione di Rai Tre condotta da Fabio Fazio. Inevitabile, per lo storico bomber rossonero, un riferimento alla stagione attuale del Diavolo: “Il Milan sicuramente sicuramente si impegnerà di più, la squadra sta crescendo. Speriamo che arrivi la qualificazione in Champions League. Per me questa non è solo una squadra, ma una grande famiglia”.
Un amore, quello nei confronti della compagine meneghina, che Sheva spera possa tramutarsi in qualcosa di ancora più grande: “Allenare il Milan? Vediamo, lo spero. Se accadrà, verrò di nuovo come ospite a ‘Che Tempo Che Fa’”, ha affermato con il sorriso dipinto sul volto. Da pochi mesi, il calcio ha perso uno dei suoi astri più luminosi di tutte le epoche, Diego Armando Maradona: “Fu lui a dirmi di dimenticare la finale di Istanbul persa contro il Liverpool. Ci incontrammo a Milano e feci una chiacchierata con lui. In quel periodo mi svegliavo di notte, non potevo credere che fosse successa una cosa così. Ancora oggi non ci credo. Nello sport, però, ci sono cose da accettare, non possiamo controllare tutto”. (aggiornamento di Alessandro Nidi)
Shevchenko e l’inferno di Chernobyl
Andriy Shevchenko ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa. L’ex calciatore del Milan, oggi allenatore dell’Ucraina, si racconterà al pubblico di Rai Tre a pochi giorni dall’uscita del suo libro “Forza gentile. La mia vita, il mio calcio“. Una storia veramente da film quella dell’indimenticabile numero 7 rossonero, arrivato in Italia e issatosi fino al tetto del mondo con il Diavolo dopo aver visto da vicino un altro tipo di inferno, quello di Chernobyl. Intervistato da “Sette”, l’inserto del Corriere della Sera, Sheva ha così raccontato quell’esperienza: “Spero di non scandalizzare nessuno se dico che mi sembrava tutto normale. Avevo dieci anni. Mi divertivo come un pazzo giocando a calcio ovunque, facendo qualunque sport. Mi avevano preso all’accademia della Dinamo Kiev, mi sembrava di cominciare a vivere un sogno. Poi saltò in aria il reattore 4, e ci portarono via, tutti. Chiusero subito le scuole. Arrivavano pullman da tutta l’Urss, caricavano i giovani tra i 6 e i 15 anni e li portavano via. Io mi ritrovai da solo al Mar d’Azov, sul Mar Nero, lontano 1.500 chilometri da casa. Eppure ancora oggi non provo angoscia. Mi sentivo come in un film, vissi quell’esperienza come una gita. Ero un bambino“.
Shevchenko: “Vi racconto il rigore contro la Juventus”
Gli occhi del bambino di Andriy Shevchenko, gli stessi diventati emblema di una vittoria storica del Milan, quella in finale di Champions League contro la Juventus nel 2003, decisa proprio da un calcio di rigore del campione ucraino: “Ho sempre avuto dubbi, mai paura. Dal cerchio di centrocampo al dischetto mi è venuto in mente di tutto. L’infanzia, Chernobyl, gli amici morti, tutto. Ma sopra ogni cosa mi dicevo di non avere dubbi. Una volta che hai deciso dove tirare, non importa cosa fa Buffon, non importa niente, basta non cambiare idea. Ricordo che mi sono passato la lingua sul labbro, e mi sono reso conto che avevo la bocca completamente secca. Ho fissato l’arbitro, perché il rumore dei tifosi copriva tutto e non avevo sentito il fischio. Lui mi ha fatto un cenno. E allora sono partito. A metà del tiro, con la palla ancora per aria, vedo Buffon che va giù dall’altra parte e capisco prima degli altri che è fatta, che quell’istante rimarrà per sempre“. Curioso l’aneddoto che Sheva ha raccontato del momento immediatamente successivo all’esplosione di gioia, sua e del popolo milanista: “Il primo che abbracciai fu Dida, e tutti pensano ancora oggi che fosse un ringraziamento per le sue parate decisive. Non è vero. Manco me ne ero reso conto che era lui, correvo e basta, me lo trovai davanti“.
Shevchenko: “Il calcio mi ha salvato”
Ma se tutti gli appassionati conoscono a memoria la sequenza sopra descritta, meno noti sono i dettagli dell’infanzia e della vita di Sheva in Unione Sovietica: “Vivere in Urss non era male. Era tutto uguale, per tutti. Tanta scuola e sport ovunque. Un Paese chiuso, che ti rendeva chiuso. Non immaginavi neppure che ci potesse essere una vita diversa da quella. Quando ho scoperto che c’era un altro mondo? In Italia, si vede che ce l’avevo nel destino. Avevo 12 anni e ci fecero disputare un torneo in una città che si chiamava Agropoli. Noi eravamo ripiegati su noi stessi, istruiti a non dare confidenza. Invece ci sciogliemmo come neve al sole. La gente ci sorrideva, ci accoglieva con gentilezza. Ricordo di aver pensato che un giorno mi sarebbe piaciuto tornarci“. L’intervistatore domanda se l’idea era quella di farvi ritorno con gli amici di Kiev: “Nel mio quartiere cominciavo ad averne sempre meno. Sono morti tutti. Non per le radiazioni, ma per l’alcol, la droga, le armi. Le crepe nel muro dell’Urss erano sempre più evidenti. Stava venendo giù tutto, il mondo dove eravamo nati si stava disfacendo. I miei amici, come tutta la mia gente, hanno smesso di credere in qualcosa, e si sono persi. Io come mi sono salvato? Con l’amore e la dedizione di mamma e papà. E con il mio amore per il calcio“.