Si chiama Ange Fey e di professione fa ‘l’accompagnatore alla morte’. Nato ad Andrate, in provincia di Torino, ha fondato nel 1997 una onlus Il bruco e la farfalla per stare accanto alle persone in fin di vita. Secondo quanto scrive il Corriere della Sera, che l’ha intervistato, avrebbe assistito all’ultimo respiro di circa mezzo migliaio di persone: «Preparo medici, psicologi, ostetriche, infermieri, ma anche la signora Maria». Quando vigeva l’obbligo di scrivere la professione sulla carta di identità «Accompagnatore ricordava una escort. Ho preferito formatore. Uno psichiatra argentino mi ha definito carontologo. Come il mitologico Caronte, traghetto all’altra riva». L’illuminazione Ange Fey la ebbe a 17 anni: «Il primo libro che lessi per intero, a 17 anni, era Mourir n’est pas mourir di Isola Pisani. Avrei dovuto capire allora che c’era una qualche malattia dentro di me. Sentivo parlare del bruco sgraziato che si trasforma in farfalla meravigliosa, ma nessuno mi spiegava come finisce la farfalla. È meno romantico, no? Così cominciai a studiare le capacità di cambiamento dell’essere umano, la psicologia applicata, le tecniche alfageniche di rilassamento, la sofrologia».



Quindi un giorno arrivò il primo ‘accompagnamento’: «Mi chiamavano in ospedale per i parenti in fin di vita. Un infermiere di malattie infettive mi disse: “Un ragazzo sta morendo. È solo. Ha chiesto di avere accanto qualcuno. Te la senti? Ha 28 anni”. Io ne avevo 25, ero sconvolto. Allora non si parlava di Aids. Mi trovai in mezzo a un’ecatombe. Una paziente che avrà avuto l’età di Asterix mi guardò sorridendo: “Ho un morbo che non va di moda”. Per gli oncologici c’erano varie associazioni, per lei nessuna. Come mai ci si prende cura di chi nasce ma non di chi muore? Eppure la morte non è una malattia». Ma cosa fa di preciso Ange Fey? Lui risponde che semplicemente «Porto me stesso. Mi hanno definito “esserelista”, perché il mio lavoro è “essere lì”. Gli infermieri in ospedale corrono, corrono. Al mattino mi chiedono: “Ma lei che fa?”. La sera mi dicono: “Ah, lei dà la mano”. È come mettere l’indice sulla culla di un neonato: lo afferra subito. Una persona in coma ti prende la mano e la tiene stretta».



ANGE FEY: “NON SO MAI COSA SUCCEDERA’ QUANDO MI CHIAMANO”

L’accompagnatore spiega di essere chiamato dalle famiglie ma anche dagli stessi malati terminali, e di lavorare più nelle case che negli ospedali: «Non so mai che cosa succederà. Il primo incontro dura tre ore: devo capire se servo. In media rimango 15 giorni. Ma a una donna affetta da mieloma, alla quale avevano dato sei mesi di vita, sono stato accanto per quasi 7 anni».

Ange Fey ovviamente viene pagato per ciò che fa: «Applico la tariffa delle ostetriche. Faccio il loro stesso lavoro, però alla rovescia. Solo che il mio non so quando finirà». L’accompagnatore afferma poi di non conoscere Marco Cappato: «Non è quello che faccio. Credo che si debba legiferare su eutanasia e suicidio assistito. Ma è meglio promuovere la cultura del Maalox o quella della buona alimentazione? Non si parla mai di accanimento terapeutico. Mi diagnosticano la Sla, so che non potrò uscirne vivo. Ha senso che assuma gli anticoagulanti?». Ma come si immagina la sua fine Ange Fey? «Spero di avere accanto qualcuno che rispetti i miei desideri e che non si accanisca con terapie superflue».