Questa edizione numero 77 del Festival di Cannes ci consegna un dato poco usuale, ossia una commedia “pura” raramente vince la Palma d’oro, così come non è usuale che vinca il premio principale uno dei film più amati dalla platea di giornalisti, operatori, critici e cinefili che frequenta la Croisette: Anora, commedia romantica di Sean Baker (che sarà distribuita prossimamente nelle sale da Universal) ha vinto la Palma d’oro assegnata dalla giuria presieduta da Greta Gerwig, dopo essere stata acclamata dalla grande maggioranza del pubblico cannense, finendo al secondo posto dei film più amati della stampa, secondo le rilevazioni di Screen.



Al primo posto c’era Il seme del fico sacro, film del regista iraniano Mohammad Rasoulof, in fuga dal regime degli ayatollah che lo ha condannato a otto anni e alla fustigazione per essere un dissidente che da parecchi anni è in lotta contro il potere: la sua opera ha vinto un premio speciale che sa di riconoscimento politico, ma che al tempo stesso appare anche come atto di cautela diplomatica, nei giorni in cui l’Iran si trova ad affrontare il lutto per la morte del Presidente Raisi e la sua successione.



Altro film amatissimo è stato All We Imagine As Light, storia di tre donne in India diretta dalla regista Payal Kapadia, premiato con il Grand Prix speciale, ossia il secondo premio più importante, mentre sul podio dei più votati dai critici c’è anche Grand Tour, l’affascinante viaggio del portoghese Miguel Gomes (grande autore cinefilo che meriterebbe una più ampia scoperta) ha vinto il premio per la regia. Paolo Sorrentino e il suo Parthenope non hanno vinto premi, al contrario di Roberto Minervini il cui ottimo I dannati (già nelle sale) ha portato a casa il premio ex-aequo per la miglior regia nella sezione Un certain regard.



Gerwig e i suoi prestigiosi compagni hanno fatto le cose “per bene” stando anche ai giudizi dei colleghi inviati, cogliendo i film che hanno fatto più discutere e suscitato emozioni e reazioni, come lo sconvolgente body horror The Substance, diretto da Coralie Fargeat, che ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura, o il musical Emilia Pérez, storia di gangster e transizioni a opera di Jacques Audiard che porta a casa un premio della giuria e quello per le interpretazioni del suo cast femminile (Karla Sofia Gascòn, Selena Gomez, Zoe Saldana e Adriana Paz). Fa macchia Jesse Plemons, protagonista del non troppo amato Kinds of Kindness – regia di Yorgos Lanthimos – che però vince il premio per la miglior interpretazione maschile, uno tra i pochi ruoli femminili di spicco dell’edizione.

È coerente quindi la scelta della giuria, che, in un panorama di storie femminili, siano di lotta e riscatto contro una società oppressiva o di rapporto con il proprio corpo e la propria identità, ha dato il premio più importante a un film come Anora, che rappresenta uno di quei generi in cui, mediamente, è anche il pubblico femminile a essere direttamente chiamato in causa, genere che Gerwig conosce bene e ha anche frequentato. Il film racconta dell’improbabile storia d’amore tra una spogliarellista (Mikey Madison) e il figlio di un oligarca russo, che finiscono nei guai quando quest’ultimo è deciso a ostacolare le loro improvvide nozze scatenandogli contro i suoi scagnozzi. Quando il ragazzo, interpretato da Mark Ėjdel’štejn, scompare, Anora e i bravi dell’oligarca lo cercheranno in giro per Las Vegas.

Eros e sentimenti, equivoci e situazioni paradossali, quella di Baker – bravo regista indipendente, dallo sguardo personale e tenero sui dropout della società a stelle e strisce, che poco a poco sta cominciando a lavorare fuori dall’underground – sembra una versione contemporanea di Ma papà ti manda sola? ma senza il ritmo inarrestabile del film di Bogdanovich, anzi Anora è un film che ama prendersi i suoi tempi, si compiace di girare a vuoto, di mostrare i suoi personaggi in situazioni vuote, per poi far valere il proprio affetto verso di loro, anche e soprattutto i secondari (occhio allo scagnozzo di Jurij Borisov), con accelerazioni improvvise, gag, sentimentalismo contagioso.

È un film divertente e sensuale, in cui si nota la difficoltà del regista a gestire un budget un po’ più alto, ambizioni produttive meno libere e un rapporto con lo spettatore più aperto e diretto, ma che lascia il dolce in bocca, sfruttando anche il dato che, in un festival dove spesso i film sono impegnativi per il cuore e la mente degli spettatori, in alcuni casi anche per il fisico, un film del genere è una boccata d’aria, così come la vista di un cast così intonato al mood del film in cui recita. La Palma, per chi scrive, è un riconoscimento esagerato, ma è anche un modo per dare lustro a un film che con la consueta idea di film da festival non c’entra poi molto. Per fortuna, direbbe qualcuno.

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