In Italia, in assenza di un serio dibattito sulle questioni vere, quelle che interessano sul serio la vita della gente, continua un acceso dibattito sull’antifascismo e sulle sue presunte manifestazioni.

Essere antifascisti, quando c’era il fascismo, era una cosa seria, richiedeva decisioni serie. Come quella di mio nonno, liberale, tutt’altro che cattolico, che decise di iscrivere sua figlia – mia madre – dalle Marcelline, scrivendo in cucina una frase storica: “Piuttost dai monic che dai fascista!”. Chi andava a scuola dalle suore, infatti, era meno condizionato che nelle scuole statali.



Personalmente, essendo nato nel ’49, pur riconoscendomi pienamente nella scelta di mio nonno, non mi sono mai considerato antifascista, perché mi sembrava che il fascismo non ci fosse più, almeno al potere.

Questo fino al 1986, quando alcuni amici del sindacato mi supplicarono di nascondere in casa, in una zona isolata di Crescenzago, José, un professore di diritto della navigazione dell’Università di Lima. Essendo anche un esponente della sinistra del suo Paese, dopo il colpo di Stato che in Perù aveva fatto seguito a quello di Pinochet in Cile, rischiava di essere ucciso, come era capitato a un suo amico esule.



Così, per dovere di carità cristiana più che di impeto antifascista, cominciò una simpatica, anche se a volte complicata, convivenza con un uomo indubbiamente molto colto e intelligente, ma evidentemente con abitudini molto diverse dalle mie. Questa situazione si interruppe bruscamente una mattina, quando le “Unità comuniste combattenti” decisero di mettere una bomba chimica sotto la mia 126 blu, parcheggiata nel cortile dell’Istituto Tecnico Molinari a Milano, dove insegnavo.

Fino a che non arrivò il comunicato dei terroristi che rivendicavano l’attentato, non sapendo che erano stati loro e non i fascisti – quelli veri –, telefonai a José di mettersi in salvo, perché forse il suo nascondiglio non era più sicuro. Così in una mattina mi trovai, mio malgrado, da antifascista a diventare anticomunista, comunque per la loro decisione (dei comunisti).



Per inciso, ero sotto accusa perché con alcuni studenti cattolici, tendenzialmente “anti” solo nei confronti dei peccati mortali, avevamo fondato una rivista satirica che si permetteva di sfottere quei gruppi extraparlamentari che dominavano la scuola. Credo che la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, o meglio accendere la miccia, fosse stata una vignetta che rappresentava il Muro di Berlino, sotto il quale si scavavano diversi tunnel per scappare in Occidente. Sotto l’ultimo tunnel, che andava in senso contrario, uno studente chiedeva a un professore: “Sei sicuro, compagno prof, che stiamo andando dalla parte giusta?”.

Purtroppo qualche anno prima, quando avevo appena preso servizio e insegnavo prevalentemente nella sede distaccata di via Corti, fui testimone occasionale della cacciata violenta di uno studente, Sergio Ramelli, dal Molinari. In quei momenti non sapevo chi fosse, né sapevo perché ce l’avessero con lui. Mi limitai ad aiutare il vicepreside che con alcuni insegnanti gli faceva scudo sotto i colpi degli studenti che ne avevano decretato l’espulsione dalla scuola.

Qualche mese dopo, quando arrivò a scuola la notizia della sua uccisione, posso testimoniare che in un clima di evidente sgomento vidi piangere diversi studenti anche di sinistra, che si sentivano, sia pure indirettamente, colpevoli di quello che era successo. Quelle lacrime, sincere, non più di destra o di sinistra, sono ancora adesso, dopo tanti anni, una lezione per me e per tanti giovani di oggi, di qualunque parte siano.

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