Anni fa mi capitò di lavorare con Antonello Venditti. Stavano ristampando la sua discografia completa allegata a Il sole 24 Ore e con ogni cd veniva allegato a sua volta un volumetto dove Antonello raccontava gli anedotti e i retroscena di ogni disco. Ci accordammo di fare delle telefoniche ogni domenica mattina da cui tiravo fuori il testo per il libretto. Una domenica non rispondeva. Provai più e più volte, alla fine uscii per andare a Messa. Dissi a mia figlia, se chiama Venditti digli che torno fra un’ora. Mia figlia, nella sua innocenza infantile, gli disse che ero andato a Messa. Quando tornai finalmente riuscimmo a incrociarci e lui esordii pieno di gioia: “Mi ha detto tua figlia che eri a Messa, ma che bello, ma come so’ contento che vai a Messa!” mi disse con il suo tipico accento romano, lasciandomi del tutto perplesso e colpito. Antonello Venditti è quello che una volta, negli anni 70, si definiva “cattocomunista”. Cattolico, cioè, e politicamente comunista in parti uguali. La fede, evidente in tantissime delle sue prime canzoni, una fede combattuta ma profonda, reale, e l’appartenenze ideologica figlia del 68 che visse in prima persona, celebrato nel capolavoro Compagno di scuola, o la tenerissima Dolce Enrico dedicata alla scomparsa del leader del Partito comunista, Berlinguer. In Attila e la stella invece il cantautore romano aveva celebrato la forza semplice dell’amore del papa che aveva fermato il devastatore barbaro sulle porte della Città santa. Sara, l’enorme successo commerciale di fine anni 70, fu attaccata duramente dalle femministe di allora, perché il cantautore “osava” dire che una ragazzina di 16 anni rimasta incinta preferiva tenersi in grembo quella vita e farla nascere invece di abortirla. E’ ancora così oggi, i riferimenti spirituali, l’immanenza di Dio emergono ovunque nelle sue canzoni.



Per questa sua caratteristica Antonello Venditti, come racconta lui stesso nel libro “Dilexit ecclesiam”, una raccolta di testimonianze pubblicato in occasione del 75esimo compleanno di Massimo Camisasca, Vescovo di Reggio Emilia, e fondatore della Fraternità sacerdotale San Carlo, divenne amico personale del sacerdote e futuro vescovo. “Aveva chiesto di incontrarmi probabilmente perché aveva visto in me una capacità particolare di incontrare persone che vivevano dei disagi, a scuola, negli ospedali, nelle carceri. Dove c’era il disagio io ero presente, forse perché io stesso avevo vissuto un’infanzia disagiata, non economicamente, ma a causa del rapporto con i miei genitori.” scrive. Fu una amicizia profonda, tanto che, dice ancora Venditti, “Mi portava spesso a cena da famiglie per me sconosciute dove si discuteva delle sfide che stavano affrontando con i loro figli speciali o con altri aspetti della vita familiare. Senza che io me ne accorgessi e con grande semplicità, don Massimo mi fece entrare in un mondo nuovo, sconosciuto, ma che era già in qualche modo presente dentro di me”. Il primo incontro però non fu felice, colpa del pregiudizio: glielo presentarono come “un’eminenza grigia” di Comunione e liberazione, cosa che non gli fece per niente piacere. Ma nel rapporto personale le cose cambiarono: “Trovai una persona con una profonda intelligenza, una grande cultura e una non comune sensibilità. La luce che mi ha attraversato fin dal nostro primo incontro è stata l’inizio di un’amicizia che non e più finita”.



IN QUESTO MONDO DI LADRI

Venditti prese parte anche ai primi passi della Fraternità sacerdotale San Carlo: “Quando fondò la Fraternità San Carlo Borromeo (una eco di quei momenti si può percepire nei primi versi di In questo mondo di ladri: Hey (hey) in questo mondo di ladri C’è ancora un gruppo di amici Che non si arrendono mai), spesso mi faceva incontrare i suoi seminaristi e i suoi preti. Mi sembrava di essere per lui come una cartina di tornasole per testare l’animo dei suoi «discepoli». […] Quando andavo a trovarlo nella casa madre della Fraternità, sapevo di essere completamente nelle mani di Dio e accettavo perfino di andare a Messa come se fosse la cosa più naturale del mondo. In uno di questi incontri alla sede della Fraternità, durante una cena, mi si è aperto un mondo: don Massimo mi aveva fatto incontrare dei ragazzi che sarebbero stati ordinati preti il giorno successivo e sarebbero partiti in missione, ognuno in un luogo diverso e ognuno con la propria «squadra». Ricordo che quella sera si mangiava, si beveva, si godeva delle cose più ordinarie della vita. Tutto era vissuto con grande gioia”. Per Venditti, Camisasca è stato una persona a cui rivolgersi per chiarire ogni genere di dubbio, per interrogarlo sulla vita, la morte: “o «usavo» per chiarire tanti dubbi che avevo nel cuore, come un «sacerdote di campagna»: e lui aveva una personalità così grande che sapeva accogliere anche domande piccole come le mie e soprattutto sapeva come rispondere in modo semplice e ad ogni tipo di persona”.

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