Ho conosciuto don Antonio Anastasio, detto “Anas”, per la prima volta appena arrivato a Milano nell’estate del 1987, mentre lui finiva la laurea alla Cattolica, dove era il capo della comunità di Comunione e liberazione nella facoltà di filosofia. Dopo alcuni giorni salii a Mazzin di Fassa per la mia prima vacanza del Movimento ed ero in camera con lui. Lì nacque un’amicizia fondamentale per me, basata su una gratitudine condivisa per l’incontro fatto con Cristo attraverso il carisma di Luigi Giussani.



Vedevo in lui quello che volevo essere io, una persona la cui umanità era attraente, aperta, positiva, coraggiosa e piena di una passione per il destino di tutti. Non potevo poi non notare, nonostante il mio italiano primitivo, il suo presentissimo senso dell’ironia, pungente e sempre pronto con una battuta azzeccata. Lo ricordo mentre faceva i frizzi della vacanza, prendendo in giro la mancanza dell’acqua calda. E da lui ho appreso tante delle canzoni che ho imparato nel Movimento, a partire da quella prima sera, quando con la chitarra intonò “La lunga traccia”.



Alla fine dell’estate entrammo in due seminari diversi, a Roma: io alla Fraternità San Carlo e lui, con una banda di compagni affezionati dell’università, in un altro posto. Due anni dopo, anche Anas con un gruppo dei suoi amici approdarono alla San Carlo.

In seminario don Massimo Camisasca, il nostro superiore, ci chiese di prepararci per una missione insieme in Africa. Ero molto felice di questo privilegio, ma la missione saltò. Anas invece partì per Oaxaca, in Messico, e da allora il suo itinerario da missionario è stato molto vario e sempre ricco di frutti visibilissimi nelle persone che hanno incontrato Cristo proprio grazie a lui. Dopo un breve periodo in Messico tornò in Italia, per lavorare qualche mese a Trieste e poi nella diocesi di Grosseto. E da allora, da Grosseto hanno cominciato ad arrivare seminaristi alla Fraternità.



Ricordo il suo giudizio sulla vita comune in missione: “Per vivere la missione – disse una volta – uno deve avere un pregiudizio positivo fortissimo del suo fratello di casa. Prima di qualunque altro giudizio, ci vuole questo pregiudizio indistruttibile”. Con la sua perspicacia così accesa che riconosceva subito i limiti dell’altro, questo non era un giudizio scontato. Ma lo viveva con me e altri anche quando gli costava caro.

Dopo alcuni anni diventò rettore del seminario della Fraternità a Roma, dove tanti giovani hanno potuto vedere in lui un’allegria e una vita determinata da un desiderio vivissimo di annunciare Cristo al mondo.

Poi è diventato parroco a Fuenlabrada, vicino a Madrid, in Spagna. Insieme ai fratelli della Fraternità, guidò una vita di comunità molto intensa, piena di affezione, opere e fede. Lì, insieme ad altri (sempre insieme ad altri) diede inizio a un’opera di accoglienza dei bisognosi, la Casa de San Antonio. Dal 2013 fino alla sua morte, il 9 marzo 2021, abbiamo condiviso la missione qui a Milano, dove lui era il superiore della nostra casa della Fraternità di San Carlo. Era cappellano presso il Politecnico, e nello stesso tempo aveva assunto anche un ruolo di presenza autorevole nella comunità del Movimento a Milano.

Per me, per la Fraternità San Carlo, per gli universitari alla Bovisa e per le migliaia di persone dentro e fuori Cl che lo hanno incontrato, don Anas era una presenza eccezionale e preziosa. In un modo saggio, pacato e ironico aveva il dono di aggregare. Vedere la sua capacità d’accoglienza, la sua passione, era davvero fonte di stupore.

Una volta mi disse che l’incontro col carisma di don Giussani lo aveva salvato dalla sorte di lavorare nei luoghi di vacanza come animatore serale con i suoi scherzi, le sue canzoni e i suoi sorrisi così avvincenti. “Ma sarebbe stato a che scopo? Mettere insieme le persone a quale proposito? Solo per un divertimento?”. Lo capivo: per Anas poter aiutare le persone a stare insieme nel nome di Cristo, aiutarli a riconoscere e abbracciare il proprio destino in Dio, imparare a dare la vita intera al compimento della volontà del Padre era un’impresa di cui era immensamente grato.

In questi ultimi anni sono sempre rimasto stupito non solo dalla sua simpatia verso di me e gli altri – a volte espressa con osservazioni acute –, ma dalla ricchezza della sua creatività. Ogni anno pubblicava un nuovo libro per bambini, una nuova favola ricca di emozione e significato, o addirittura incideva un bellissimo disco con le sue canzoni, ciascuna capace di ridare al cuore il senso di calorosa appartenenza a un Mistero buono, anche nelle situazioni più dolorose. Ricordo anche, con incredulità, la capacità di fedeltà che lo animava: per esempio quando radunava a casa nostra i suoi amici di scuola elementare… Quei bambini che aveva radunato nella sua infanzia, non li ha mai mollati!

Dire addio a don Anas non è facile, adesso che è morto a soli 59 anni. Il suo esserci era una sicurezza per tanti di noi, le sue parole un’ispirazione, la sua compagnia la promessa di una strada che valeva la pena di percorrere. Non riesco a credere che sia davvero partito…

Ma il significato della sua presenza è sempre stato chiaro: riconoscere e partecipare con Gesù all’opera di riconciliazione col Padre. E la sua partenza – dopo una lunghissima sofferenza nel reparto di terapia intensiva per malati Covid all’ospedale Niguarda – ha lo stesso significato: si è conformato alla croce di Gesù per collaborare col Signore a prepararci la dimora nella casa del Padre.

Che Dio ci aiuti a desiderare e amare questo destino, amare Gesù sopra ogni altra cosa, per poter vivere questo strappo non come una dolorosissima sfortuna, bensì come una preziosa occasione per essere protagonisti per la vittoria di Cristo e per la salvezza del mondo.

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