Antonio Cabrini è stato un simbolo della nazionale campione del mondo del 1982 e una bandiera della Juventus. Intervistato oggi dal Corriere della Sera ha ricordato quel magico ventennio del calcio italiano, gli anni settanta e ottanta: «Una grande avventura prima di tutto umana. Vede, io sono nato a Cremona, sono tutto sommato un provinciale. Ma l’aver vissuto a Torino mi ha insegnato tanto. Per esempio, a essere più sobrio: ieri come oggi Torino è la città ideale per un calciatore, perché anche se ti riconoscono per strada, la ritrosia sabauda impedisce loro di fermarti e chiederti un autografo o una foto». Un periodo in cui la ricchezza dei calciatori andava in contrasto con le lotte sindacali degli operai e il terrorismo: «I cancelli di Mirafiori e il campo dove noi ci allenavamo erano vicini. Io tante volte sono passato da solo con la macchina in mezzo ai picchetti di protesta. Eppure non ho mai avuto nessun problema. Mi sono fatto l’idea che quegli operai ci abbiano sempre considerati simili a loro. Tutti eravamo alle dipendenze di un’azienda molto potente e dunque vedevano in noi dei lavoratori. Certo, privilegiati rispetto a loro, ma sempre lavoratori».

E Antonio Cabrini fu toccato in prima persona da quel periodo di “tumulti”: «Ad un certo punto rapirono quello che era il compagno di mia nonna. Iniziarono le trattative, però i sequestratori sapevano bene chi ero io e che cosa facevo. Con grande discrezione, il club mi mise a disposizione un’auto blindata per un certo periodo. Ricordo ancora che Boniperti veniva negli spogliatoi a sentire l’umore. Era evidente che anche noi eravamo preoccupati per il clima che si respirava, e così ci tranquillizzava dicendo: “Andrà tutto bene”».

ANTONIO CABRINI: “IL CALCIO NON ERA SPETTACOLO MA SPORT”

Di nuovo sul periodo alla Juventus: «Sono cresciuto in una squadra importante in un periodo in cui il calcio non era ancora spettacolo, bensì sport. E i valori dello sport venivano coltivati, protetti. La disciplina, la lealtà in campo, lo spirito di gruppo. Tutto questo c’è anche oggi, certo, però le voglio raccontare un episodio legato al celebre Mondiale dell’82 in Spagna, quello vinto dall’Italia».

Antonio Cabrini ha quindi snocciolato quello del rigore sbagliato in finale: «Per me fu un colpo terribile, sia perché all’epoca non si coltivava l’importanza degli errori come si fa oggi, sia perché capivo di aver sbagliato in una cosa che mi riusciva sempre bene e questo mi faceva molta rabbia. Comunque, ne fui alquanto scosso e, anche se poi il Mondiale lo vincemmo lo stesso, io avevo quel peso dentro. Che vivevo come una colpa, non come una casualità sfortunata. Così, sull’aereo del ritorno, mi avvicinai a Pertini e gli sussurrai: “Chiedo scusa per l’errore”. Il presidente mi guardò e mi disse: “Non dica sciocchezze, abbiamo vinto, è un grande risultato di tutti”. Eppure io avevo sentito il bisogno di scusarmi con lui, che lì rappresentava tutto il Paese».