Di norma il “revisionismo” arriva sempre da chi si è opposto ad un dato sistema, un dato fatto o semplice periodo storico: questa volta però con Tangentopoli si “rischia” di riscrivere parte sostanziale delle vicende con il suo principale diretto protagonista, l’ex giudice di Mani Pulite Antonio Di Pietro. In una lunghissima intervista a L’Espresso, per l’occasione dei 20 anni dalla morte di Bettino Craxi ad Hammamet, l’ex leader di Italia dei Valori ribadisce alcuni elementi solo accennati in questi lunghi anni di distanza dal pool che sconvolse con le proprie inchieste l’Italia politica degli Anni Novanta. «Nella realtà io non ho mai avuto un rapporto con Craxi. Io miravo all’ambiente malavitoso che girava intorno ad Andreotti»: insomma, l’obiettivo non fu mai il Psi di Craxi o lo stesso ex Premier morto in “esilio” in Tunisia. Per Di Pietro, lui era «l’emergente, quello che faceva parte della Milano da bere» ma non era lui il vero potere secondo Tonino: «Andreotti è stato prescritto, fino al 1980, non è che è stato assolto. E dall’altra parte ci stava il sindaco, Vito Ciancimino, e Salvo Lima. Quindi, voglio dire: quello era il potere vero». L’obiettivo di Mani Pulite insomma non era prima di tutto la politica nazionale, ma la mafia nei suoi rapporti con la politica, ed è per questo che secondo Di Pietro il progetto è stato fatto fallire. «Mani pulite non è stata fermata dalla politica: è stata fermata dai giudici. È una storia che va riscritta prima o poi», ribadisce Di Pietro a L’Espresso nel ventennale della morte di Bettino Craxi. Lui, il personaggio che per un breve lasso di tempo venne identificato dal popolo italiano come l’uomo giusto che cambiasse la politica nella Seconda Repubblica (l’alter-ego di Berlusconi, per intenderci), quegli anni aveva una “mission” che andava ben oltre alle inchieste su Tangentopoli.
TANGENTOPOLI “RISCRITTA” DA ANTONIO DI PIETRO
«Mani Pulite si ferma oggettivamente quando si rompe l’unicità dell’inchiesta. La sua forza era infatti nel cosiddetto fascicolo virtuale, nell’idea cioè di creare una connessione probatoria tra tutti i fatti – spiega ancora Di Pietro all’Espresso – per cui procedeva una sola autorità giudiziaria. Ma nel momento in cui nascono i conflitti di competenza territoriale il fascicolo si smembra: e allora non ha più tutti gli elementi, non si può più utilizzare, e soprattutto il pm che sta qua, non conosce l’insieme degli elementi del pm che sta là». Per l’ex magistrato e politico, l’intero lavoro di Mani Pulite finisce quando arriva a definire alcune connessioni tra appalti a mafia ma nasce anche dalla medesima direzione: «Mani pulite non l’ho scoperta io: nasce dall’esito dell’inchiesta del maxi-processo di Palermo, quando Giovanni Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il gruppo Ferruzzi e la mafia». Sempre secondo Di Pietro, Borsellino non è stato ucciso per aver cominciato il maxiprocesso del suo amico e collega Falcone, «ma perché insieme a Falcone doveva far nascere Mafia pulita». Per l’ex leader di IdV, Mani pulite fu la conseguenza di Mafia pulita: l’obiettivo era Andreotti e il giro mafioso che secondo Di Pietro vi stava attorno. Lui voleva arrivare al collegamento dove Falcone e Borsellino già vi erano giunti a Palermo: «Raul Gardini non si suicida così, per disperazione, il 23 luglio 1993: si suicida perché sa che quella mattina, venendo da me, doveva fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire». Dopo tanti anni e diverse dichiarazioni con le procure, Di Pietro non ha mai cavato nulla con questa sua linea di lettura: eppure oggi prosegue nel rilanciare il fatto che Lima avrebbe chiesto, in quanto rappresentante di Andreotti, una parte della tangente Enimont: «Se quel fatto veniva detto, se Gardini parlava, se Salvo Lima non moriva, io avrei potuto avere elementi sufficienti per chiedere al Parlamento di arrestare Andreotti». Infine Di Pietro chiarisce perché si dimise 25 anni fa nello sconcerto più generale al culmine dell’inchiesta Mani Pulite: «mi avrebbero arrestato per quella marea di esposti contro di me alla Procura di Brescia», stava per arrivare alla cupola mafiosa «grazie alle dichiarazioni che mi aveva fatto il pentito Li Pera su un certo Filippo Salamone, imprenditore agrigentino intermediario tra il sistema mafioso e il sistema imprese-appalti, il nord che veniva gestito soprattutto da Gardini e dalla Calcestruzzi spa di Panzavolta». Ma non avvenne e proprio qui la verità storica deve ancora, 20 anni dopo i fatti, trovare il suo autentico e pieno disvelamento: che sia la “linea Di Pietro” o un’altra, ancora, non è dato saperlo con certezza.