Il 16 agosto di un anno fa lasciava la vita terrena Antonio Pilati. L’amico che lascia testimonianza – anche lui, non credente – che la morte non è rottura ma trasformazione.

Trasformazione che si realizza nell’opera scientifica di un intellettuale di razza qual era Antonio, come documenta bene l’ultimo suo lavoro apparso poche settimane orsono grazie alla fedele sprezzatura di quel gran signore che è Riccardo Pugnalin: Mitologie italiane. Idee che hanno deviato la storia (Luiss, 2023). Un libro – l’ultimo libro – che testimonia come Antonio non abbia mai smesso di ricercare l’Altro nel confronto e con il confronto incontrare la realtà in tutte le sue cangianti espressioni.



Lui, che studiò tra i primissimi in Europa i sistemi autopoietici dei mass-media e le tecnologie del digitale con un approccio pluridisciplinare – si confrontava in quel libro sul ruolo delle ideologie nella storia di un’Italia il cui sistema di potere aveva studiato con esiti fortemente innovativi.

La sua era una sociologia e una teoria economica dei servizi di una società industriale di massa sempre comprendente e in grado di superare il gioco di specchi di un capitalismo sempre in trasformazione.



Se n’è andato come è vissuto: nel massimo della riservatezza e di una sorta di isolamento che univa invece che dividere, che stimolava al dialogo invece che rinserrare nelle false coscienze.

E pure era stato un uomo pubblico: un grand commis, un esponente di quelle “autorità indipendenti” (come le definì il maestro Alberto Predieri) su cui per anni ci esercitammo per comprenderne l’effetto trasformativo sul costrutto ordinamentale degli Stati.

Era stato ed era un uomo pubblico perché “uomo della polis”. Ed è perché non ci rassegniamo a non lottare solo più nella polis, ma per la polis (la polis che ogni giorno si sfarina tragicamente) che sempre ne portiamo con noi l’insegnamento.



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