“Rimettere in moto la normalità, in tempi rapidi, ridefinendo climi, contesti e rapporti di fiducia dentro la massima obbedienza alle indicazioni per contrastare l’epidemia da coronavirus e con la massima responsabilità, personale e di tutti”. A chi tocca questo compito? “Abbiamo bisogno che la massima autorità del paese, il Presidente della Repubblica, si assuma una responsabilità di unità nazionale, individuando e definendo un punto di riferimento capace e competente, un commissario straordinario, espressione di tutte le forze politiche, economiche e sociali del paese, a cui affidare una strategia di comunicazione più essenziale e meno isterica di quella finora adottata e una gestione operativa, più equilibrata e intelligente, del fenomeno coronavirus, predisponendo un  grande piano di rilancio dell’immagine dell’Italia nel mondo”. Altrimenti? “Il paese va in ginocchio”. E’ l’appello che Antonio Intiglietta, presidente di Ge.Fi. e imprenditore attento alle realtà fieristiche, delle piccole imprese e dell’artigianato, si sente di rivolgere a Sergio Mattarella. “Bisogna prepararsi adesso a questo rilancio – aggiunge -, il che non vuol dire non fare quel che è necessario fare per contenere i focolai di contagio, ma senza allarmismi, isterismi, esagerazioni. Bisogna sostenere chi ha addosso la tenuta e la voglia di ripresa. E’ il primo, ineludibile, passo da compiere. Gli interventi economici sono sussidiari a questa logica. Qui non si tratta di lenire le ferite, ma di curarle”.



A quali ferite si riferisce?

Il dato di fatto è questo: l’Italia è un paese isolato. La comunicazione sul problema coronavirus ha prodotto un auto-isolamento, al nostro interno e con il mondo. Il nostro lavoro, mio e del mio staff, è incontrare gli artigiani in Italia, in Europa e nel mondo e abbiamo rapporti con tutte le istituzioni italiane, europee e mondiali. Ebbene, oggi riusciamo a incontrare solo gli artigiani, che non hanno alcuna paura del coronavirus, ci incontrano con piacere. C’è però un isolamento delle micro e piccole imprese a tutti i livelli.



In che senso?

Innanzitutto, c’è un isolamento all’interno del proprio territorio: il blocco degli eventi e delle manifestazioni, il fatto che la gente abbia paura a spostarsi e che i mercati vengano chiusi, portano le micro e le piccole imprese, che vivono della produzione e della vendita diretta al pubblico, cioè con una filiera molto corta, a essere totalmente isolate e paralizzate nei loro laboratori.

E quelli che possono contare su una minima rete commerciale e hanno una struttura più evoluta?

Non possono più spedire i loro prodotti, perché vengono additati come produttori che operano in luoghi inquinati: se operano sul mercato interno, in quanto produttori del Nord, e se operano sui mercati esteri, in quanto italiani tout court, non riescono più a vendere, perché prevale il dubbio che quella merce sia stata “corrotta” dal coronavirus. Siamo ormai a questi livelli. Non si comprano più prodotti italiani. E nemmeno si può andare in diversi paesi, non ti fanno più entrare.



E il dialogo con le istituzioni?

Tutte le istituzioni, anche in Italia, rimandano gli incontri con i lombardi, i veneti e gli emiliani. Dicono esplicitamente: meglio che non venite, ci vediamo più avanti. E’ la paralisi della comunicazione e degli scambi.

Insomma, gli artigiani continuano a lavorare, tengono duro, ma fino a quando possono reggere in questo isolamento?

Se non si ricompongono i nessi, se la gente non ritorna a vivere e a incontrarsi, il collasso crescerà di giorno in giorno e se la situazione non si sblocca nell’arco di pochi mesi noi ci troveremo in una condizione molto grave di tenuta del sistema, non solo economico, ma anche sociale.

Addirittura?

Non ci dobbiamo dimenticare che questi artigiani, questi micro e piccoli imprenditori hanno in mano il tessuto, economico e sociale, reale di territori interi, di cui oltre tutto si prendono cura, salvaguardandoli. E nel 2008 proprio loro hanno affrontato la crisi finanziaria non licenziando le persone, ma resistendo e poi rilanciando l’occupazione, tanto che il problema della crisi non l’hanno risolto scaricandone gli effetti sugli altri, ma facendosene carico in prima persona.

Come si è arrivati a questa paralisi, a questo isolamento?

Invece di affrontare il problema coronavirus contestualizzandolo, l’esasperazione strumentale della comunicazione e l’irresponsabilità di questa classe dirigente hanno generato una mostruosità: la peggiore epidemia con cui stiamo facendo i conti non è il coronavirus, ma l’isterismo con cui il tema è stato comunicato. Questo isterismo sta generando una progressiva paralisi delle relazioni e dei rapporti, sterilizzando tutte le possibilità di scambi e di nessi che andavano invece preservati, all’interno ovviamente della salvaguardia dei princìpi sanitari, igienici e di prevenzione. Questo è il punto vero: abbiamo tragicamente sbagliato tutta la comunicazione, alimentando un principio di diffidenza che ha chiuso le relazioni.

Come se ne viene fuori?

Senza atteggiamenti superficiali e avventati, occorre – urgentemente, con intelligenza, con una maggiore attenzione a sé, con un maggior rispetto degli altri e con una seria assunzione di responsabilità, personale e sociale -rilanciare un ritorno alla normalità nell’arco di pochi mesi: bisogna ricominciare a vedersi, a parlarsi, a dialogare, a fare affari, a poter vendere e promuovere ciò che si produce.

L’isterismo ha minato un capitale fondamentale per il paese: la fiducia. Un patrimonio difficile da ricostruire?

La fiducia, più che un problema economico, è innanzitutto un problema di relazioni e ancor prima è la verifica della consistenza dell’io. Se non viene sulla fede, sulla speranza della vita, se tutto viene percepito come ostile, come minaccioso, non si rimette in moto nulla. Va subito fatto capire che la normalità non è una minaccia, stando ovviamente attenti, ciascuno e tutti insieme, alle indicazioni date, con un’obbedienza intelligente e adeguata per tutelare se stessi e la comunità in cui si vive. Serve uno scatto personale di ripresa delle relazioni che richiede responsabilità.

Questo scatto di responsabilità va però incoraggiato, non crede?

Sì, ma non bastano i richiami morali che pur giustamente il Capo dello Stato ha fatto. In questa situazione abbiamo bisogno che la massima autorità del paese, il Presidente della Repubblica, si assuma una responsabilità di unità nazionale, innanzitutto individuando e definendo un punto di riferimento capace e competente, un commissario straordinario che sia espressione di tutte le forze politiche, economiche e sociali del paese, a cui affidare una strategia di comunicazione più essenziale e meno isterica e una gestione operativa, più equilibrata e intelligente, del fenomeno coronavirus.

Potrebbe bastare?

Occorre anche che il Capo dello Stato individui dei testimonial autorevoli e credibili per rilanciare l’immagine dell’Italia, che oggi questa classe dirigente al governo ha completamente rovinato e distrutto. Un paese serio in questo frangente chiede alle sue rappresentanze più credibili e affidabili di mettersi in prima fila per rappresentare al meglio l’Italia con una efficace rete di relazioni diplomatiche, istituzionali e di comunicazione. Questo vale più dei contributi economici a pioggia. Se non parte questa controffensiva, nessuno riaprirà rapporti con l’Italia e tutto quello che faremo rischia di diventare sterile.

C’è un esempio concreto a cui potersi ispirare?

Quando la Valtellina fu martoriata dalla frana, a salvarla davvero non sono stati tanto i contributi a pioggia, quanto la scelta della Regione Lombardia di lanciare un’azione di marketing per richiamare i turisti, offrendo loro una settimana gratis per sciare. E’ stato il punto di attrazione di una comunicazione che, nell’anno più dannato, ha coinciso con il più grande boom turistico della Valtellina.

Serve un grande piano di comunicazione…

Ci vuole uno staff di grandi comunicatori, messo nelle condizioni di predisporre un ambizioso piano di rilancio dell’immagine dell’Italia nel mondo, attraverso immagini, volti, storie, opportunità. E’ la prima spesa da sostenere. Vanno poi rigenerati grandi spunti di richiamo, che facciano capire all’estero quanto è interessante e conveniente venire nel nostro paese. Infine, bisogna riaprire fiere, manifestazioni, incontri, mercati.

Per realizzare tutto questo servono risorse. L’ex ministro Tremonti propone di andare a bussare a Bruxelles chiedendo di togliere, vista l’eccezionalità dell’emergenza coronavirus, le clausole di salvaguardia, così si libererebbero 47 miliardi in due anni, da utilizzare non per interventi assistenziali, ma per un vero ed effettivo programma di rilancio economico. Che ne pensa?

Sono d’accordissimo con la proposta di Tremonti. E aggiungerei anche l’urgenza e la necessità di predisporre un vero piano straordinario di rilancio. Vero nel senso che tenga finalmente conto che il 99% del nostro tessuto produttivo è fatto di piccole imprese.

(Marco Biscella)

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