Quarant’anni fa il Festival di Cannes premiava come miglior film in concorso Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, film di rara bellezza visiva come di altrettanto rara folle violenza, che traspone lo spirito del racconto Cuore di Tenebra (Heart of Darkness, 1902) di Joseph Conrad, ambientato in Congo durante l’epopea coloniale, negli apocalittici – appunto – scenari della guerra del Vietnam. Il premio fu assegnato ex-aequo con Il Tamburo di Latta di Volker Schlondorff. Film tedesco che, come Apocalypse Now, mette in scena un racconto – tratto dall’omonimo romanzo del premio Nobel Gunther Grass – fortemente metaforico, lucido e spietato (in questo caso sulla Germania post-nazista).



In piena guerra del Vietnam il capitano Willard (Martin Sheen), membro dei servizi segreti militari, viene incaricato di risalire un fiume che sconfina in Cambogia, trovare il colonnello Kurtz (Marlon Brando), che ha disertato e vive nella giungla attorniato da una corte di indigeni che lo adorano come una divinità, ed eliminarlo. Alla fine di un viaggio singolare e allucinante, percorso tra i mille orrori della guerra, sarà Kurtz stesso a indurre Willard a ucciderlo secondo una specie di rito sacrificale.



Come nel racconto di Conrad, il viaggio a risalire il fiume del capitano Willard, protagonista di una sorta di incubo a occhi aperti cui Martin Sheen conferisce un’aria tra il trasognato e il terrorizzato, assume la valenza metaforica di un tragitto nella parte più recondita e oscura dell’animo umano. Il colonnello Kurtz, che Willard incontra al termine di questa moderna odissea, altro non è che il suo doppio, il suo alter ego che la guerra – come la pozione magica del dottor Jekyll – ha trasformato in un essere che porta in sé solo la tenebra del male. Kurtz è anche emblema dell’occidentale che, a contatto con la memoria bio-storica del tribale che è stato millenni prima, ne riassume sembianze e comportamento. L’approdo alla tenebra conradiana, che Coppola mette in scena con visionaria maestria e perizia tecnica notevolissima (grazie anche al direttore della fotografia Vittorio Storaro) nella seconda metà del film, ha allora le sembianze di un ritorno a un violento e ancestrale passato. È una parte della nostra stessa storia di occidentali civilizzati che riaffiora e ci sconvolge, causa ed effetto della guerra.



La linea più conradiana del film, derivazione diretta del suo racconto, traccia allora una riflessione amara e disillusa sull’imperialismo degli Stati Uniti, erede diretto del colonialismo europeo cui Conrad criticamente si riferiva, e sulla follia omicida della civiltà occidentale, che pare aver basato la sua sopravvivenza – nel caso del colonialismo nella lotta contro le civiltà più povere per accaparrarsi le risorse naturali; nel caso del Vietnam nella lotta contro lo spettro, supposto, del comunismo – sulla sopraffazione violenta di altre culture e altre civiltà. D’altro canto, invece, Coppola e il suo co-sceneggiatore John Milius utilizzano lo spunto di Conrad per mettere in scena alcune tipiche tematiche da cinema di guerra, almeno quello post-moderno. Solo che in Apocalypse Now esse arrivano allo spettatore con singolare violenza unita a un raro splendore visivo.

Il protagonista di un film di guerra post-moderno compie sempre un viaggio allucinato e ineluttabile, spesso anche materialmente, tra le rovine dell’animo, suo e altrui, giù giù come una sacrale discesa agli inferi. Il focus narrativo, in Apocalypse Now, tocca i diversi tipi di follia che la guerra instilla nell’uomo: la droga come unica salvezza all’abominio, la violenza insensata e innaturale contro tutto e tutti, il sesso come sopraffazione e potere, il terrore come arma di affermazione sui più deboli. Magma concettuale molto ben evocato dalla sinistramente adatta canzone The End dei The Doors, presente sia nel celeberrimo incipit, a punteggiare le esplosioni al napalm che di colpo infiammano la giungla, sia nel finale del film, a sottolineare il montaggio parallelo col quale Coppola paragona l’omicidio di Kurtz, per mano di Willard, all’uccisione sacrificale di un toro nel rito tribale compiuto dagli indigeni adepti dell’ex-colonnello.

Apocalittica fu anche la lavorazione del film, come narrato dal documentario Hearts of Darkness: a Filmmaker’s Apocalypse, presentato al Festival di Cannes nel 1991. Le riprese, effettuate nelle Filippine, durarono infatti un anno e mezzo (dal marzo 1976 all’agosto 1977), e si svolsero tra diverse difficoltà. Martin Sheen, avvezzo all’alcool ma non al caldo umido delle location, fu colto da infarto, e per diverso tempo fu necessaria una controfigura inquadrata solo di spalle. Un tifone distrusse le scenografie, causando ritardi e lievitazione dei costi. Fu così che tra incertezze produttive e ostacoli tecnici, e “umani”, anche Coppola, depresso, tentò il suicidio, perse trenta chili di peso e rischiò la separazione dalla moglie. Visto il risultato pare ne sia valsa la pena: Apocalypse Now è diventato un cult, probabilmente il film sull’orrore del Vietnam migliore, e più celebre, di sempre.

Nel 2001 Coppola ha realizzato una versione redux (dal latino “ritornante”) del suo capolavoro. Non solo un cosiddetto director’s cut, ma piuttosto una versione migliorata del film, più lunga di oltre mezz’ora e completamente rimontata, per farlo più vicino allo spirito iniziale degli autori. La nuova versione, infatti, meno frenetica nel suo ritmo complessivo, lascia più spazio e più tempo alle istanze concettuali principali, quelle – già citate – collegate alla follia della guerra, allora libere di fluire nel racconto ed essere meglio colte dallo spettatore. In tal modo, la versione redux riproduce la peculiare caratteristica del testo letterario di Conrad di essere, formalmente, simile a un lento fluire, come appunto la corrente di un ampio e fertile fiume.

Per questo particolare aspetto dialettico tra forma e contenuto dell’opera, sia il testo di Conrad che il film di Coppola sono senz’altro da annoverare tra i massimi capolavori delle rispettive arti; e il premio ricevuto quarant’anni fa da Apocalypse Now, seppure importante, pare poca cosa di fronte a tale tratto di universalità e assolutezza.