Pochi giorni fa, l’Ansa ha lanciato la notizia di una nuova battuta di arresto per il troncone napoletano del processo sugli appalti di Rete Ferroviaria Italiana (RFI) finiti ad aziende ritenute vicine al clan dei Casalesi, riportando come i giudici del tribunale di Napoli si siano dichiarati incompetenti, inviando gli atti al presidente del tribunale di Napoli Nord.
La notizia, che non sembrerebbe di primo profilo, contiene invece diversi spunti di approfondimento.
L’indagine che è sfociata nel processo in questione è stata originata dalle dichiarazioni del figlio del famigerato boss dei Casalesi ovvero Francesco Schiavone e riguarda un totale di oltre 60 persone, “abbracciando” tanto esponenti del clan quanto alti funzionari di RFI, oltre che imprenditori e colletti bianchi. Gli sforzi investigativi, condotti dalla dottoressa Arlomede della Direzione distrettuale antimafia (DDA) di Napoli, con il supporto dei Carabinieri di Caserta, hanno portato ad ipotizzare che una delle più grandi stazioni appaltanti italiane, ovvero la società che gestisce la rete ferroviaria, sia stata piegata alle esigenze del cartello criminale casertano, favorendone guadagni di milioni di euro attraverso appalti pilotati.
Formulata la richiesta di rinvio a giudizio, la storia processuale di questa indagine risulta quantomai travagliata. Dopo che nove imputati hanno scelto di accedere al rito abbreviato (conclusosi con condanne pesanti come quella emessa nei confronti di un esponente apicale del clan dei Caselesi a 16 anni e 5 mesi di carcere), il processo viene incardinato innanzi alla prima sezione del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, che però si dichiara “tabellarmente” incompetente, passando gli atti alla seconda sezione dello stesso tribunale, che a sua volta si riconosce anch’essa incompetente, inviando il fascicolo alla terza sezione, davanti alla quale il processo subisce un ulteriore stop: accogliendo un’istanza di incompetenza territoriale avanzata dai difensori dei ben 59 imputati, il tribunale infatti invia gli atti alla Cassazione, che però rigetta la richiesta e reinoltra il fascicolo al tribunale.
Ma la storia è lungi dal concludersi: grazie infatti a quei bizzarri percorsi che solo il mondo della giustizia sa disegnare, il processo viene scisso in due tronconi poiché il tribunale decide di trattenere presso di sé i soli reati di associazione camorristica, che contano una ventina di imputati, inviando gli atti a Napoli per i reati di associazione a delinquere finalizzata alla intestazione fittizia, alla corruzione, alla turbativa d’asta, al favoreggiamento, all’autoriciclaggio, al trasferimento fraudolento di valori, all’estorsione, alla rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio aggravati dall’agevolazione mafiosa, che conta la restante quarantina di imputati.
Come poc’anzi accennato, il tribunale di Napoli a quel punto si è a sua volta dichiarato incompetente e ha – notizia appunto di pochi giorni fa – inoltrato il fascicolo al tribunale di Napoli Nord, che, geograficamente, si colloca in mezzo fra Napoli e Santa Maria Capua Vetere, confidando, ci sia passata la battuta, che in medio stat virtus.
In attesa allora di vedere quale tribunale procederà alla trattazione del secondo troncone di inchiesta in cui sono coinvolti i cosiddetti colletti bianchi ed in cui risulta centrale il ruolo di RFI, appare evidente che l’indagine portata avanti dalla DDA sia la classica patata bollente di cui tutti, nel pieno rispetto delle norme vigenti, cercano di liberarsi. Infatti il quadro che emerge dalle indagini riveste senza alcun dubbio un assoluto rilievo, che, per insondabili ragioni, non ha sin qui goduto di adeguato richiamo mediatico. Sia dall’esito dei giudizi abbreviati, sia dall’attività dibattimentale che si sta svolgendo nell’ambito del filone rimasto a Santa Maria, sta trovando conferma l’ipotesi accusatoria che vede imprenditori amici del clan entrare nel grande giro di appalti milionari grazie ad una gestione degli appalti edili pilotata da parte dell’ala imprenditoriale dei Casalesi, con annesse percentuali variabili da versare nelle casse della consorteria criminale.
Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia escussi in giudizio hanno infatti indicato Dante Apicella, condannato in abbreviato, come colui il quale si occupava degli appalti pubblici, nello specifico quelli con RFI, avvalendosi anche della collaborazione di altri imprenditori “collusi” col clan, quali i fratelli Nicola e Vincenzo Schiavone. Per la percentuale da reimmettere nelle casse del clan si andava da un 3% se non era stato necessario un intervenuto diretto, fino a un 10% se si era invece proceduto con le pressioni. Orbene, se questo sistema è ben noto e già riscontrato in numerose vicende giudiziarie, ciò che in questo caso colpisce è che una simile dinamica illecita possa aver riguardato anche una delle principali società a controllo pubblico, senza che alcuno si accorgesse di nulla.
Benché i fatti oggetto di indagine siano risalenti a diversi anni fa e se è corretto ritenere che l’ala militare del clan sia stata fortemente colpita se non quasi azzerata, ciò che inquieta di questa vicenda è l’elevata capacità di infiltrazione economica, al punto da far temere che essa possa essere ancora molto forte.
Insomma, sotto traccia, fuori dall’attenzione mediatica, si sta celebrando, con qualche fatica, un processo che più ancora dell’acclamato processo Spartacus, che ha certamente segnato un’epoca, sta offrendo il quadro della straordinaria forza economica di un gruppo criminale che, ancor più di quanto si potesse francamente immaginare, faceva affari con una società controllata dallo Stato, sollevando grossi interrogativi sulla incapacità anche delle grandi imprese di riuscire a non essere così pesantemente infiltrate. Secondo la ricostruzione delle indagini, la RFI non avrebbe tratto vantaggio da tutto ciò e pertanto non è stata contestata la sua responsabilità penale/amministrativa, ma il confine resta oggettivamente sottile. La responsabilità gestorie paiono tuttavia incontestabili. Come si può ammettere che una società sotto il diretto controllo dello Stato si sia affidata a manager che non sono stati in grado di bloccare quella che appare una incisiva azione di corruzione e infiltrazione criminale?
In questo scenario si inserisce non certo per caso la farsa della collaborazione del capo del clan, Francesco Schiavone, che la scorsa primavera ha fatto ipotizzare il definitivo tramonto di un’epoca grazie a rivelazioni di segreti inconfessabili e di possibili terremoti politici e giudiziari. Ma quella collaborazione, seppur realmente prospettata, ha in realtà prodotto solo silenzi e reticenze, fino al tramonto ufficiale, alimentando una scia di dubbi e domande irrisolte.
Di converso, di recente è finito nuovamente in carcere il figlio di “Sandokan”, Emanuele Libero Schiavone, da poco uscito dal carcere dopo aver scontato la sua pena. Le intercettazioni svolte dalla procura chiariscono la tensione che sta caratterizzando questa difficile fase: a marzo, infatti Emanuele Libero arriva in carcere per un colloquio con il padre che gli confida che ha avviato il percorso di collaborazione e lo invita ad andare via da Casal di Principe, ma riceve un secco rifiuto dal figlio che gli risponde a brutto muso. Poi la realtà supera la fiction e si assiste a una scena degna delle migliori puntate di Gomorra: Emanuele Libero chiede al padre, come aveva fatto all’inizio del colloquio, di avvicinarsi al vetro per darsi un bacio in bocca. Il padre lo guarda e gira la faccia. I segnali di forte fibrillazione non sono certo incoraggianti. D’altronde la recente relazione semestrale, inviata al Parlamento dalla Direzione investigativa antimafia, non fa che confermare la permanenza dell’alert. La DIA specifica che la Camorra ha un’ingerenza pervasiva negli enti locali della Campania: resta forte l’allarme per gli appalti pubblici truccati dalla criminalità e soprattutto la capacità di attivare le proprie imprese attraverso il sistema del subappalto che è difficilissimo da controllare, restando praticamente quasi sempre anonime le società che entrano successivamente nei cantieri pubblici.
La potenza criminale del clan dei Casalesi, e della criminalità organizzata in generale, resta ancora molto forte e non risulta peregrina l’osservazione che, al di là dei soliti proclami, non si stia facendo abbastanza per contrastarla. A buon intenditor poche parole.
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