Il Presidente di Federchimica Francesco Buzzella ha recentemente segnalato le sue preoccupazioni per la competitività dell’industria europea, proponendo di affiancare al “Green Deal” per l’ambiente un “Industrial Deal” per le imprese che affronti alcune questioni fondamentali, tra cui principalmente i costi dell’energia, che sono troppo alti in Europa, e una burocrazia che rende estremamente complicato fare imprese nel nostro continente.



L’impegno verso la sostenibilità ambientale – può sembrare un gioco di parole – va reso esso stesso sostenibile, soprattutto socialmente, proprio ed esattamente perché è un obiettivo che deve essere perseguito fino in fondo.

L’industria europea condivide infatti l’obiettivo della decarbonizzazione. Questo non solo a fini di sostenibilità ambientale, ma anche per creare una economia europea che sia più solida e resiliente. Petrolio e gas sono materie prime problematiche, di cui siamo sprovvisti, e per cui si sono combattute e si combattono tuttora guerre. È interesse di tutti dipenderne il meno possibile.



L’industria chimica, per la sua posizione nelle filiere produttive e la vicinanza all’approvvigionamento e produzione di materie prime, è spia ed osservatorio importante sulle tendenze in corso. Le parole di Buzzella sono quindi pesanti.

E, come ha ricordato, le tendenze in atto sollevano alcune decise preoccupazioni. La produzione chimica si è contratta in Italia del 4,1% nel 2022, del 6,7% nel 2023 ed è ancora in contrazione nel 2024. Il quadro europeo, purtroppo, dà segnali analoghi. La cosa che più preoccupa è che la maggioranza degli annunci di chiusura di stabilimenti al mondo, sono stati fatti in Europa.



È da un po’ di tempo che l’Europa è un posto complicato in cui fare impresa, soprattutto per la manifattura e le piccole e medie imprese.

È un problema per tutti, perché tale complicazione in definitiva comporta una minore competitività e quindi, quando associata all’ambizione di mantenere più aperte possibili le frontiere ai commerci, conduce alla perdita di posti di lavoro a favore di Asia e Americhe e a un impoverimento progressivo dei nostri cittadini. Molti già percepiscono un aumento delle disuguaglianze e una perdita di benessere.

Che fare dunque? Per quanto riguarda l’energia il sentiero è stretto. Di idrogeno verde e nucleare di nuova generazione si parla molto, ma difficilmente si tratta di soluzioni che saranno percorribili nei prossimi 15-20 anni, perlomeno a livello massivo. Il rinnovabile più tradizionale, quello legato a solare, eolico, biomasse, biocombustibili è promettente, ma richiederebbe scelte e compromessi importanti, non solo a livello paesaggistico, ma anche più sostanziali, come ad esempio consentire l’utilizzo per la produzione di energia di prodotti agricoli altrimenti destinati ad alimentazione umana o animale.

L’energia, in ogni caso, rimarrà costosa. Le fonti rinnovabili richiedono investimenti importanti, soprattutto se devono essere incentivati.

Sul fronte della burocrazia, invece, il campo è ampio e le cose che si possono fare molte. Si richiede però un cambio di approccio, quasi culturale, nelle nostre istituzioni. Il Green Deal ha prodotto un diluvio di burocrazia che ha già colpito e colpirà ancora le imprese europee.

Le nostre istituzioni, invece di cercare di guidare ed orientare la ristrutturazione della nostra economia con un sistema di incentivi economici o di mercato che spinga gli operatori in una direzione piuttosto che un’altra, hanno proceduto con l’imposizione di obblighi e divieti tassativi molto ambiziosi e a scadenza ravvicinata. In alcuni casi, come nel caso dell’auto elettrica, volendo scegliere a priori le tecnologie e modalità “vincenti” piuttosto che lasciarle far emergere dalla competizione di mercato.

Questo approccio “pick the winner” (scegliere il vincitore) è molto diverso da quello che si segue negli Stati Uniti, che ancora crescono, dove l’imposizione di specifici comportamenti è vista con sospetto, e paradossalmente ci avvicina di più all’Asia, dove i governi sono usi ad intervenire pesantemente nell’economia.

Si tratta di un approccio molto rischioso. Un mercato ben regolato per sua natura fa emergere soluzioni sostenibili economicamente nel tempo, proprio in quanto generanti profitto tramite il bilanciamento di domanda e offerta. Quando invece è un gruppo di funzionari a scegliere, per quanto ben preparati, vi è sempre il rischio che la soluzione individuata non trovi poi un suo equilibrio.

È probabilmente quello che sta accadendo con l’auto elettrica per la quale, ai prezzi attuali e prospettici, vi è scarsa domanda autonoma da parte dei consumatori. Gli esuberi annunciati in Germania da Volkswagen e le difficoltà in cui si trova la metalmeccanica europea, che rischia di essere spiazzata da scelte fatte proprio dai governi europei, mostra come tali rischi possano produrre e producano danni concreti.

Gli imprenditori europei sono membri della comunità come tutti gli altri, con i loro pregi e difetti. Interessati come tutti gli altri anche al bene comune, e non sempre e solo al proprio profitto individuale. Buzzella ha ragione. Le autorità europee dovrebbero ascoltare di più l’industria europea.

 

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