“Toc, toc! C’è nessuno? Vogliamo riaprire le nostre attività”. L’invito campeggia sotto due porte chiuse, una blu con la dicitura “Governo nazionale”, l’altra verde con la scritta “Regione Emilia Romagna”. Il manifesto continua: “Non potete distruggere il futuro delle nostre imprese e delle nostre famiglie. Siamo già oltre il limite”. Poi l’accorato appello finale: “Fateci riaprire!”. E’ la campagna, apparsa su quotidiani e sul web, con cui Confcommercio di Forlì-Cesena, associazione che conta 4mila imprese e circa 30mila addetti, ha voluto sensibilizzare le istituzioni a non dimenticarsi, in questa neonata fase 2, di pubblici esercizi, imprese del commercio e dei servizi, turismo della Romagna. Avete trovato udienza? “I governi locali ci stanno ascoltando – risponde Augusto Patrignani, presidente della Confcommercio della provincia Forlì-Cesena, nonché imprenditore nel settore della distribuzione di prodotti e servizi nell’ambito dell’igiene professionale -. Per esempio, in tema di fisco, in merito all’eliminazione delle tasse locali dovute nei tre mesi in cui le attività sono state chiuse. L’appello alla riapertura, invece, è più un invito al governo nazionale, ma deve cambiare alcune regole assurde, o regionale. Tant’è vero che in Emilia-Romagna si sta ragionando sull’ipotesi di anticipare al 25 maggio la riapertura di quelle attività prevista il 1° giugno”.
Il commissario ad acta per l’emergenza coronavirus in Emilia-Romagna, Sergio Venturi, che lascerà sabato 9 maggio l’incarico, ha infatti parlato di “epidemia sotto controllo” e di “chiusura della fase d’emergenza”. Ma questi due mesi di lockdown che cicatrici hanno lasciato sul mondo del commercio in Romagna?
Purtroppo dopo il virus del Covid-19 avremo il virus della miseria, con cui sfortunatamente dovremo fare i conti. Ci sarà un’economia molto ammaccata, perché per quanto un’attività possa ripartire, considerando le misure che stanno imponendo, come il distanziamento fisico, il commercio ne risentirà moltissimo.
Con quali impatti finora sull’occupazione?
Abbiamo più di un migliaio di persone in cassa integrazione nei pubblici esercizi e nel turismo della costa adriatica, senza considerare gli stagionali.
Per le attività commerciali, dai bar al turismo, la fase 2 è stata rinviata, tra il 18 maggio e il 1° giugno. Non si poteva anticipare come è stato fatto per altre imprese al 4 maggio?
E’ proprio quello che noi abbiamo chiesto con insistenza. L’errore più grave del governo è stato quello di chiudere in base ai codici Ateco, non ha alcun senso. Anche perché così si interrompono le filiere, sempre più interconnesse, e può capitare, come è capitato, che alcuni codici Ateco rimasti aperti hanno potuto lavorare al minimo, non potendo contare su tutta la catena dei fornitori. Il criterio doveva essere uno: tenere chiuse le attività che non potevano lavorare in sicurezza.
Le ragioni del lavoro e quelle della salute sono per forza in contrapposizione o possono convivere?
E’ la questione di fondo e su questo punto i decisori, a mio avviso, hanno mostrato incapacità e scarsa conoscenza di come vive una partita Iva, di come si fa un mestiere. Salute e lavoro possono convivere, bisogna adottare dei protocolli di sicurezza.
Che sono infatti previsti…
Sì. Ma perché si può salire su un autobus in 16 e in un negozio con la stessa metratura può entrare solo un cliente per volta? Che regola è? E’ un criterio che non tiene conto della vita di tutti i giorni. Capisco che far girare un autobus con una persona sola a bordo non sia conveniente, ma allora perché non far entrare in un negozio 4-5 persone?
Di cosa hanno urgente bisogno le imprese del commercio per uscire senza troppi danni da questa emergenza?
Uscire indenni è impossibile, un prezzo lo dovremo pagare tutti. E per non dover pagare un prezzo troppo salato o non dover rischiare la chiusura bisogna far sì che a tutte queste imprese a cui è stato imposto di cessare l’attività sia destinato un indennizzo a fondo perduto per mancato guadagno.
Le imprese hanno anche bisogno subito di liquidità?
Siccome costi e spese continuano a correre anche nei tre mesi di chiusura imposta e siccome non tutto tornerà a regime come prima del Covid, oltre all’indennizzo, alle imprese va garantita liquidità di cassa per poter riaprire, stare in piedi, pagando i dipendenti e facendo fronte ai propri obblighi, dall’affitto alle bollette. A parole hanno promesso tanti miliardi, nei fatti purtroppo questi miliardi non stanno arrivando. Inoltre, il governo non può chiedere la restituzione del prestito, che è un indebitamento, in tre anni o in sei anni: bisogna garantire minimo 10-12 anni.
Sul fronte della liquidità lei auspica un intervento dei Confidi. Che ruolo possono giocare?
I Confidi, operando sul territorio, conoscono bene le imprese, quindi possono svolgere un utile compito di accompagnamento: consigliare, agevolare le istruttorie e dare certezza affinché il credito non venga sprecato o mal utilizzato.
Quali altre richieste avete avanzato?
Sul fronte fiscale, innanzitutto abbiamo chiesto non la sospensione o la spalmatura su 12 mesi, bensì l’abolizione, per tutto il periodo della chiusura attività, di qualsiasi tassa o imposta, dall’Imu alla Tari. In secondo luogo, una rimodulazione dei tributi futuri, perché le imprese dopo il lockdown non andranno subito a regime.
Il turismo è un settore decisivo per la Romagna, ma è in ginocchio. Si può ancora salvare la stagione turistica? E come?
Il turismo è il petrolio dell’Italia, ma lo è soprattutto da noi: la Romagna è la prima industria turistica in Europa, con 7-8mila alberghi spalmati su una cinquantina di chilometri e senza considerare tutta la filiera. E’ fonte di benessere: se il turismo in Italia incide per il 15% del Pil, in Romagna arriva tranquillamente al 30%. Quindi deve tornare a riaprire, in sicurezza, ma al più presto: è l’unica condizione per poter salvare la stagione, altrimenti saranno guai per il nostro territorio. Anche perché, se si ritarda troppo e andando incontro a una stagione di fatto già dimezzata e a un molto prevedibile calo degli ospiti, ci saranno alberghi che, conti alla mano, decideranno che non converrà riaprire.
Sono in tanti ad avere questa preoccupazione?
Con queste regole il 99% ha paura di riaprire. Per due motivi: le norme sul distanziamento fisico, che molti esercenti e commercianti non hanno alcuna possibilità di poter ottemperare, perché rispettandole, non avendo spazi adeguati, non potrebbero stare in piedi o pagare i costi d’esercizio.
E il secondo motivo?
Non è assolutamente accettabile che lo Stato abbia deciso che il Covid-19 non sia una malattia, ma un infortunio sul lavoro, con un imprenditore che rischia di dover affrontare magari un processo penale oltre al risarcimento danni? E’ inaccettabile in uno Stato di diritto che si sia arrivati a tanto.
Cosa significa essere corpo intermedio e associazione di categoria ai tempi del Covid?
Abbiamo una responsabilità doppia. Come corpo intermedio dobbiamo ancora di più restare al fianco delle imprese, andando a far sentire con forza le nostre ragioni quando il decisore politico non adotta le scelte giuste per la collettività. Perché dobbiamo ricordarci una cosa: dove non ci sono le imprese, si muore di fame.
(Marco Biscella)