Il cuore dell’uomo, “nato di donna”

Vorrei partire dal tema che mi è molto caro, il cuore, inteso come desiderio umano di felicità interiore, impulso verso il bene immateriale, a cui affidare ogni speranza di salvezza. Oggi però il cuore non è più qualcosa di immodificabile, come siamo stati abituati a ritenerlo fino ad ora. La cesura tra modernità e postmodernità non è un riferimento astratto a categorie storiografiche e filosofiche, ma un abisso che si è scavato nella realtà, fra un prima e un dopo: la postmodernità ci allontana dalle nostre radici come mai è successo prima, è una frattura che non abbiamo mai sperimentato nel corso della storia in modo così drastico e assoluto, qualcosa che cancella anche le tracce del tempo, ci allontana dal passato, dalla tradizione, dall’esperienza, in un certo senso da noi stessi.

Non siamo in molti a nutrire una percezione così drammatica e ultimativa di ciò che sta accadendo, ma tra questi c’è, per fortuna, il Papa. Ricordo che, quando ancora era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, Ratzinger aveva scritto una lettera ai Vescovi in cui affrontava il tema della differenza sessuale. Quella lettera ebbe un grande e inaspettato successo presso le femministe, perché era evidente, leggendola, che il Cardinale sapeva orientarsi e distinguere all’interno delle diverse correnti del pensiero delle donne. Ciò produsse molto stupore, data la scarsissima conoscenza in Italia delle teorie e analisi femministe, e infatti ero abituata a dire e scrivere, da circa dieci anni, cose che avevano pochissima eco. Il fatto che si stesse scivolando verso la manipolabilità dell’umano, che l’ideologia del genere stesse entrando da tutti i canali internazionali possibili e che dopo un po’ queste teorie avrebbero avuto ricadute di tipo legislativo, era considerato, nel dibattito culturale italiano, un’ipotesi remota. Ben pochi sapevano cosa esattamente implicasse l’introduzione della parola «genere» al posto di «sesso», almeno fino alla riforma del matrimonio attuata da Zapatero con una semplice modifica terminologica (sostituendo i vocaboli sessuati «uomo» e «donna» con il neutro «coniuge»).

Nei discorsi e negli scritti di Ratzinger, invece, ho sempre letto sia una profonda consapevolezza culturale che una profonda consapevolezza dell’urgenza, dell’angoscia, del significato decisivo di questo momento storico. Uno dei segni del suo pontificato è nel sentimento preciso del fatto che stiamo correndo verso l’abisso, che non c’è ritorno sulla strada che l’umanità sta imboccando. Non c’è ritorno perché quando si interviene sull’umano, attraverso le biotecnologie e la tecnoscienza, si produce una desertificazione dell’esperienza che alla fine comporta una desertificazione del cuore.

I DiCo, ad esempio, per tornare al tema di cui trattiamo, potrebbero sembrare una cosa quasi inoffensiva. In fondo, si dice, cosa toglie alla famiglia tradizionale il fatto che ci possono essere altre famiglie, di tipo diverso? Perché, in una società pluralista, non si può lasciare a ciascuno la possibilità di costruirsi la propria famiglia secondo criteri personali?

Il punto è che i DiCo sono la negazione del materno come fulcro della costruzione della famiglia. Il termine matrimonio ha una radice femminile, mater-, perché è la maternità il cuore della famiglia, il nucleo primario intorno a cui si strutturano le relazioni di parentela e si forma la comunità. L’idea che la famiglia sia solo la coppia, cioè che qualunque rapporto affettivo fra due persone crei la famiglia, è maturata perchè la generazione si sta separando dal corpo. La nascita è ormai qualcosa di sganciato dalla maternità, cioè non soltanto dal corpo, ma dai rapporti spontanei che da sempre l’hanno accompagnata. Avere un figlio non è una questione solo biologica, ma relazionale, culturale, e di esperienza: un’esperienza di amore e di affidamento. Ricordo un libro storico del femminismo, il cui titolo è Nato di donna, di Adrienne Rich. Le femministe sostenevano che l’esperienza fondamentale degli esseri umani, ciò che unifica l’umanità, è l’essere nati tutti nel grembo di una donna.

«Nato di donna» è un’espressione biblica. La troviamo tre volte nel lamento di Giobbe, ed è significativo che sia legata all’idea della caducità umana, della mortalità, della sofferenza: «l’uomo, nato di donna, vive pochi giorni, sazio d’affanni. Spunta come un fiore, poi è reciso; fugge come un’ombra, e non dura». È l’immagine della fragilità umana, in sintesi della creaturalità. La manipolazione della procreazione e della nascita, dunque, include l’azzeramento della capacità dell’uomo di guardare verso l’alto e di riconoscere il limite.

Tecnoscienza e società totalitaria

Modificando le esperienze primarie dell’uomo, se ne modifica anche il cuore, come tensione spirituale, desiderio di una felicità interiore profonda. Tutto questo non lo si deve più soltanto al processo di secolarizzazione in atto nel mondo occidentale, ma agli effetti sempre più invasivi della tecnoscienza nella nostra vita quotidiana, e alla biopolitica. La politica ha acquisito un nuovo potere sui corpi, non paragonabile a quello che deteneva un tempo, cioè segregare, reprimere, togliere la libertà o addirittura la vita. L’esercizio di questi poteri non toccava l’essenza dell’umano, quindi la costruzione della coscienza. Oggi la politica ha il potere di stravolgere l’esperienza millenaria degli uomini, a partire dalla possibilità di manipolare i corpi, di controllare informazioni privatissime e di regolare attraverso le leggi le nuove tecnologie. L’umano si può costruire in laboratorio, e si può costruire “meglio”; rinasce così l’illusione di sconfiggere il male sulla terra, anche se non più attraverso la programmazione sociale come nel secolo scorso: l’utopia della perfettibilità è stata spostata dal terreno sociale al terreno della biologia e della genetica, ma l’idea di fondo è sempre quella di raddrizzare il legno storto dell’umanità.

Sull’ultimo numero di Science, un editoriale sostiene che la clonazione riproduttiva umana è inevitabile, benché messa al bando praticamente da tutte le convenzioni internazionali. Perché? Perché una volta che si elimina quel confine rigido che per secoli abbiamo dato per scontato, e che per intenderci possiamo definire “naturale”, tutto diventa flessibile, soggetto a contrattazione, dipendente da convenzioni arbitrarie che si possono sempre modificare. Per la logica fatale del piano inclinato, quello che oggi ci appare moralmente inconcepibile, dice l’articolo di Science, tra dieci anni ci apparirà invece del tutto accettabile. Se il confine è arbitrario, insomma, man mano che ci abituiamo alle nuove situazioni, lo sposteremo automaticamente in avanti.

Accettando l’idea della perfettibilità dell’uomo, non lo consideriamo più assolutamente unico nella sua imperfezione; l’unicità è legata in modo inscindibile all’imperfezione, e questa alla creaturalità, quindi il problema è proprio difendere l’imperfezione in quanto tale. Il presidente della Commissione nazionale di Bioetica francese, Didier Sicard, ha detto in un’intervista a Le Monde che ormai in Francia si è aperta la strada all’eugenismo, grazie agli esami e alle diagnosi prenatali. Anche in Italia la direzione è quella, come ha dimostrato il caso avvenuto all’ospedale Careggi di Firenze, grazie al quale è venuto a galla, almeno in parte, il problema degli aborti tardivi, eseguiti a scopi eugenetici. Il caso del bimbo abortito a 23 settimane e sopravvissuto per qualche giorno è finito sui giornali solo perché si erano verificati due incidenti di percorso: il piccolo era vivo e la diagnosi era sbagliata. Se la diagnosi fosse stata giusta, o se il bimbo fosse morto come ci si aspettava, tutto sarebbe rimasto nell’ambito della normalità.

Si sta perdendo la cultura dell’accoglienza, l’idea che la società deve rispettare la dignità di ogni persona, e questo mentre trionfa la censura linguistica messa in atto dal politicamente corretto e l’ideologia delle pari opportunità. In realtà, si tutelano solo le diversità corporativamente forti, ad esempio la diversità omosessuale, che ha sviluppato una sua capacità di contrattazione politica, e si ignorano le altre. Si costruisce una società in cui la diversità viene apparentemente rispettata ma sostanzialmente rifiutata, perché non è più legata all’idea dell’unicità sacra della persona. Questo si vede anche nella terminologia che si adopera nei documenti e nelle definizioni ufficiali. Per esempio si usa costantemente il termine «riproduzione» per definire la procreazione umana. Ma riprodurre vuol dire produrre l’identico; per essere chiari, si riproduce un quadro, un’immagine fotografica, oppure si riproducono gli animali. L’uomo non si riproduce, l’uomo procrea, genera.

Quello che mi interessa è spostare il discorso dal campo della bioetica alla biopolitica. Biopolitica è un termine foucaultiano, che oggi però viene inteso e utilizzato diversamente. Il potere, l’abbiamo detto, interviene da sempre sui corpi, ma finora è stato esercitato attraverso la coercizione, il sequestro delle libertà, nei luoghi concentrazionari come carceri, manicomi, ecc. Oggi, invece, viene esercitato attraverso l’introduzione dei cosiddetti nuovi diritti, come se si trattasse di un allargamento delle libertà individuali. È un incredibile paradosso, perché si sta costruendo una società totalitaria, in nome dei diritti individuali.

Parlo di quello che potremmo definire «totalitarismo genetico», che passa attraverso l’utopia scientista. Se qualcuno comincia a dividere l’umanità tra chi ha diritto di nascere e chi no, tra chi è «fit» e chi è «unfit», come facevano i movimenti eugenisti d’anteguerra; se si può stabilire chi va “eutanasizzato”, se si può intervenire sul patrimonio genetico di qualcuno prima che nasca; se si possono avere informazioni sulle probabilità di vita e sulle eventuali malattie di una persona, è chiaro che ci si sta predisponendo a una società totalitaria. Mi ha fatto impressione un recente articolo del professor Giuseppe Remuzzi, in cui diceva che la ricerca scientifica non può obbedire a criteri etici esterni, a un potere di controllo esterno che ponga dei limiti o dia degli indirizzi, ma deve casomai autocorreggersi, perché solo gli scienziati possono sapere cosa deve o non deve fare la scienza. È un po’ quello che è accaduto con i magistrati che si autogovernano e non rispondono a nessuno dei propri errori, anche se questi errori possono costare alle persone la vita e la libertà. È l’idea di un potere non controllabile sul piano democratico, che si amministra da solo, che non deve assolutamente avere limiti e che non risponde a nessuno.

In questo modo si sta legittimando un potere irresponsabile, che è il presupposto della dittatura, e lo si sta facendo grazie appunto ad un allargamento delle libertà individuali. Non credo che le libertà possano sempre articolarsi in diritti; non sono una giurista, però penso che inventarsi nuove libertà non sia tanto facile, le libertà più o meno sono sempre quelle. Si possono moltiplicare i diritti specificandoli sempre di più e indebolendone l’universalità, oppure facendoli coincidere coi desideri, facendo corrispondere ad ogni possibile desiderio un diritto; ma non credo che così si allarghi davvero l’area della libertà personale. Si arriva, infatti, al paradosso cui accennavamo: costruire una società totalitaria attribuendo nuovi diritti agli individui.

Biopolitica, non solo bioetica

È per far capire questo paradosso che dobbiamo intervenire sul piano della biopolitica, e non soltanto su quello della bioetica: per essere chiari, non si devono soltanto adattare i criteri del giudizio morale alle nuove situazioni, ai conflitti e ai dilemmi creati dalla tecnoscienza, ma denunciare le concrete modalità di esercizio del potere sui corpi e quindi sulle persone. Noi siamo un’avanguardia, non siamo dei conservatori; siamo un’avanguardia che ha in Italia uno speciale laboratorio, per una serie di motivi storici, tra cui la presenza della Chiesa. Siamo consapevoli che il rischio è quello di una società antiumana, sostanzialmente illibertaria e anti-individualistica, perché si minano le basi su cui poggia l’autonomia reale dell’individuo.

Sono convinta che questa è una battaglia laica, da affrontare con argomenti e strumenti culturali che possono essere comprensibili e recepibili dai laici. Penso che però debba essere anche una battaglia politica. Non parlo dei partiti, naturalmente. È una guerra culturale, e io credo nel suo valore pedagogico; cioè credo che condurre una battaglia culturale vincente produca un’accelerazione pedagogica e abbrevi moltissimo i tempi di presa di coscienza dell’opinione pubblica. Molti cattolici ritengono che si possa semplicemente fare testimonianza, senza impegnarsi nel dibattito pubblico, che comporta sempre un certo grado di snaturamento; ma condurre una lotta sul piano culturale crea gli spazi per la testimonianza personale, altrimenti oggi gli spazi si chiudono.

Questa guerra culturale è cominciata almeno 30 anni fa, anche se pochi allora se ne rendevano conto. La ridefinizione e modificazione dei diritti umani è un processo che nelle sedi internazionali (ONU e Unione Europea) è iniziato da tempo. In primo luogo attraverso un indebolimento del loro valore universale, grazie alla moltiplicazione e specificazione dei diritti, poi attraverso un rovesciamento dell’ordine classico delle priorità: basta pensare ai diritti riproduttivi. Così si sono create situazioni come quelle di alcuni Paesi islamici, in cui le donne possono avere accesso ai diritti riproduttivi, ma non a elementari diritti come la libertà di spostarsi, di lavorare, o magari di votare. Nel campo semantico il conflitto culturale è continuo. Nell’Unione Europea per studiare le trasformazioni linguistiche è stato stanziato anni fa un notevole budget: il risultato è la scomparsa delle cosiddette parole sessuate da tutte le risoluzioni e i testi prodotti dalla UE. Parole come madre, padre, donna, uomo, sono state evitate, per essere sostituite con una terminologia gender neutral, cioè non declinata al maschile e al femminile. Si dice coniuge, genitore, al posto di famiglia si usa «progetto parentale», e così via. La riforma di Zapatero è frutto di questa cultura. È una riforma che ha fatto leva sul linguaggio: cancellando un vocabolo, anzi sostituendo un termine sessuato con uno neutrale ha modificato la struttura del matrimonio, aprendola alle persone dello stesso sesso.

Come potremmo definire questa strana guerra che ha per scopo la modificazione dell’umano e dell’esperienza? Io direi che in estrema sintesi la nostra è una battaglia per la difesa della creaturalità. Questo mi sembra il punto fondamentale. Che cosa significa, dal punto di vista pratico? Vuol dire che ci tocca lottare per il mantenimento della condizione umana, di cui è parte essenziale la fragilità, l’imperfezione e l’unicità. Questa unicità preziosa è legata al riconoscimento, in ogni essere umano, dell’impronta divina. Si può credere o non credere, ma solo attraverso la possibilità del trascendente si garantisce la sacralità della vita umana. Per chiarezza: oltre una certa soglia si scivola nel non umano, ed è lì che stiamo andando. Basta vedere la pressione che c’è, in Inghilterra ma anche altrove, per consentire la creazione in laboratorio delle chimere, cioè l’ibridazione tra uomo e animale. Non c’è soltanto un processo di disumanizzazione in senso morale o culturale, c’è proprio la disumanizzazione in senso tecnico, biologico. Pensiamo alle teorie del cyborg: il corpo cyborg può essere modificato chirurgicamente, con innesti animali, meccanici, elettronici, è un corpo ibridato che non ha più un’identità sessuale definita. Il cyborg ha un’identità multipla, flessibile, scorrevole e indistinta, un’identità “fai da te”.

Da un momento all’altro in Inghilterra si permetterà la creazione di embrioni-chimera; forse non riusciranno a crearli sul piano tecnico, ma se ci riuscissero temo che dopo chiederebbero di impiantare questi embrioni-chimera nel corpo di una donna o di una mucca. Per ora gli scienziati interessati a produrli sostengono che mai e poi mai lasceranno crescere questi embrioni, che vengono creati solo per essere distrutti entro il quattordicesimo giorno; ma, come dice Science, quello che appare oggi impossibile, dopo dieci anni potrebbe diventare lecito. Quindi si sta andando non solo verso la disumanizzazione, ma verso la progettazione scientifica del non umano.

Vorrei che si capisse che esiste una netta linea di demarcazione tra le battaglie degli anni Settanta, come il divorzio e l’aborto, e quello che sta accadendo oggi. La differenza è data dall’irruzione della tecnoscienza nella nostra vita, ad esempio, dal fatto che si può intervenire sulla vita, creandola artificialmente in laboratorio. Si può intervenire sui presupposti della nostra esperienza umana, su elementi che ritenevamo da secoli immutabili e soprattutto indisponibili.

Anche la proposta dei DiCo ha indirettamente questo significato, perché smantella l’unicità della famiglia: la famiglia si forma intorno alla nascita, è fatta cioè dalle relazioni spontanee che si creano intorno alla procreazione. Ma oggi il rapporto d’amore carnale non serve più alla procreazione, perché il figlio è sempre più un bene di consumo, che si può magari ordinare alla banca dell’embrione (già esiste negli USA). Il figlio insomma non presuppone più una relazione fra uomo e donna, il concepimento e la nascita e quindi la creazione delle reti naturali di parentela. Ormai qualunque coppia può generare un figlio in laboratorio o attraverso le diverse offerte di mercato.

La guerra culturale sarà lunga, forse meno di quanto possiamo immaginare. Sono abbastanza ottimista, perché ritengo che l’Italia sia un punto di resistenza fondamentale, un laboratorio di soluzioni controcorrente.

I nostri avversari si appoggiano al luogo comune, che è diffuso attraverso il mainstream culturale e attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Però in Italia abbiamo dalla nostra parte un senso comune condiviso, basato sull’esperienza. Questo senso comune è forte e radicato, ma non ha capacità di autorappresentazione, ha difficoltà a entrare nel dibattito pubblico e a confrontarsi con gli strumenti agguerriti del luogo comune. Per questo è di fondamentale importanza inserirsi a pieno titolo nel dibattito culturale con strumenti e argomenti che pesino e che valgano per tutti. Sono convinta che oggi sia possibile, proprio perché abbiamo dalla nostra parte la solidità dell’esperienza, spontaneamente refrattaria al luogo comune, e lo si è visto nel referendum sulla procreazione assistita.

Oggi i cattolici non sono soli, c’è un’ampia zona del mondo laico che non è d’accordo con questa rivoluzione antropologica, che è affezionata al proprio bagaglio culturale, al patrimonio di significati che racchiude. I cattolici devono ricordarsi di essere inclusivi, aperti, di rivolgersi a tutti, credenti e non. Non siamo qui a tenere in piedi la bandiera del conservatorismo finché è possibile, prima di essere fatalmente sconfitti e travolti dalla storia. Il nostro sforzo è quello di mantenere in vita il senso dell’umano, la creaturalità: qualcosa a cui, tra alcuni anni, tutti vorranno probabilmente tornare, quando i segni della devastazione saranno più evidenti.



Le teorie del “genere” (in inglese “gender”) attribuiscono alla differenza sessuale un valore convenzionale e sostanzialmente arbitrario. La dualità dei sessi non è biologica né ontologicamente fondata, dunque l’identità di genere non è stabile, ma fluida, relazionale, mutevole.

Il termine «cyborg» indica un organismo cibernetico, cioè «il miscuglio di carne e tecnologia che caratterizza il corpo modificato da innesti di hardware, protesi e altri impianti». Così lo definisce Donna Haraway, autrice del Manifesto cyborg, uscito negli USA nel 1991.