Diventato principe ereditario il 22 giugno 2017 a seguito di una rivoluzione di palazzo orchestrata da suo padre, Mohammad bin Salman ha continuato l’intervento militare nel contesto della guerra civile yemenita e ha posto in essere una purga senza precedenti. Dozzine di principi, uomini d’affari, ministri sono stati arrestati e in seguito licenziati.



Sia le conseguenze dell’intervento in Yemen sia la natura autoritaria dell’epurazione sono state apertamente criticate in Occidente, inducendo i servizi di intelligence tedeschi a dichiarare pubblicamente la loro preoccupazione per la politica impulsiva di bin Salman, nonostante il fatto che, almeno in apparenza, il Principe ereditario avesse promosso un’immagine di leader riformatore. A tal proposito basti pensare al suo programma di trasformazione del Paese noto come Vision 2030, destinata a diversificare l’economia del paese.



Ma il 2 ottobre 2018, in seguito al caso del giornalista Jamal Khashoggi, assassinato nel consolato saudita a Istanbul, l’immagine del Regno saudita è stata alquanto compromessa. Infatti sette dei 15 sospettati nell’assassinio di Khashoggi sarebbero guardie del corpo del Principe. Inoltre la stampa americana conferma – dietro indicazione della Cia – che proprio il Principe ereditario ne avrebbe ordinato l’arresto e l’assassinio. Non solo: l’uccisione di Khashoggi ha inciso sull’International Investment Forum in Arabia Saudita (il “Davos del deserto”), che ha avuto luogo poche settimane dopo l’assassinio.



Del resto, lo stesso ministro saudita per l’Energia, Khaled Al-Faleh, non ha potuto nascondere l’imbarazzo del suo governo, quando nel suo discorso di apertura al Forum ha dichiarato che il Regno “sta attraversando giorni difficili”. Anche l’economia saudita è stata direttamente interessata, con il Tadawul (indice del mercato azionario dell’Arabia Saudita) che aveva mostrato forti cali in seguito alle rivelazioni su Khashoggi.

Ebbene, se già la monarchia saudita aveva riferito di aver speso 16 milioni di dollari tra il 2 ottobre 2017 e il 2 ottobre 2018 per operazioni con influencer negli Stati Uniti, nell’anno successivo alla morte di Khashoggi i sauditi hanno investito oltre 30 milioni di dollari. È quindi ovvio che le spese di lobbying negli Usa, in nome degli interessi dell’Arabia Saudita, sono aumentate notevolmente dopo la morte di Jamal Khashoggi. Mentre alcune società hanno cercato di prendere le distanze dalle controversie di Khashoggi e dalle accuse di violazioni dei diritti umani, altri influencer hanno colto l’occasione per negoziare contratti vantaggiosi.

Una delle società più pagate è la Sonoran Policy Group, società di lobbying fondata da Robert Stryk, consigliere di Trump durante la sua campagna elettorale. La società ha ricevuto 5,4 milioni di dollari per “servizi di consulenza”.

Un’altra società di lobby pro-sauditi è certamente la MSL Group, che ha ricevuto più di 18,8 milioni di dollari tra ottobre 2018 e gennaio 2019.

Inoltre, nell’ottobre 2018, pochi giorni dopo l’assassinio di Khashoggi, Twitter ha posto in essere, poi bloccata, una campagna a favore del Regno Saudita.

In ultima analisi, nonostante lo shock dell’affare Khashoggi e le successive condanne occidentali, l’Arabia Saudita è in gran parte sfuggita alla punizione che gli è stata promessa dai media anche grazie a un’ampia e articolata campagna di Guerra di disinformazione.

Infatti, un anno dopo gli eventi, le ripercussioni legate al caso Khassogi sono praticamente assenti. Ma se tutto ciò è potuto accadere, dipende anche dal fatto che l’Arabia Saudita è uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo e, soprattutto, uno principali acquirenti di armi dai paesi occidentali.