In un pomeriggio piovoso e plumbeo siamo a Scampia per incontrare Davide Cerullo. L’indirizzo dell’Albero delle Storie è via Galimberti, Torre 2. Non conosco Scampia e mi conquista. Strade ampie sotto un cielo basso. Un paesaggio lunare. Vi navigano immense navi di cemento. Le vele. Irrompe d’improvviso il ritratto di Pasolini a testimoniare l’umanità di questo luogo.



Davide ci accoglie col sorriso e ci introduce nel suo mondo a misura di bambino. Camminiamo accanto a un giardino dove un asinello ci guarda di traverso e poi la scritta “No a Gomorra” domina in stampatello sulla facciata e ci avvisa che questo non è il mondo di Roberto Saviano. Questo è il luogo dei bambini.

“A Napoli ci sono due città, il centro e la periferia. Il mio sogno era spostare il centro in periferia. Ho provato con l’aiuto di Erri De luca e di amici francesi, e per un periodo il centro è venuto in periferia e non solo perché la periferia è chiacchierata o famosa per i film, ma perché c’è gente che vuole mescolarsi per capire e per scoprire, perché a Scampia si impara a vivere. La Napoli del centro può molto per questo territorio. C’è bisogno di un incontro e questo anche per il bene del centro, del cuore di Napoli. A Scampia si concentrano i mali della città. A Scampia ci sono bambini da salvare. Io sono entrato nella camorra a 10 anni. Mi avevano rinchiuso in un collegio, i primi abusi. Da lì sono usciti i peggiori criminali. A casa eravamo 14 figli, 6 femmine e 8 maschi. Eravamo troppi. Come si mangiava? Papà ci aveva lasciato e si era fatto un’altra vita nel basso Lazio. Così ci hanno chiuso in un collegio. La parola chiudere mi spaventa. I bambini non bisogna mai chiuderli.”



Davide tutti i libri che sono qui al centro sono tuoi? Hai una bellissima collezione di Adelphi.

Questi sono i miei idoli di carta. Mi hanno salvato. Persone che con la forza delle parole hanno salvato altre persone e si sono beccate la prigione o addirittura la morte. Persone vere che hanno avuto coraggio. Hanno sentito il problema dell’altro come il proprio. Questo è quello che manca a noi oggi, sentire il problema dell’altro. Perché il problema dell’altro è il nostro problema.

Come hai fatto a credere alle parole dei libri? Sembra naturale ma non lo è, cioè è naturale credere ma non è facile, soprattutto per chi ha avuto una storia come la tua. Da insegnante noto la difficoltà e la fatica dei ragazzi a prendere per vere le parole degli autori la cui lettura propongo loro, le parole dei maestri.



Il problema non sono i giovani, siamo noi. E noi dobbiamo imparare ad accostarci a loro. Noi abbiamo paura delle parole e delle storie. Abbiamo paura che diventino le nostre. Quando ero al carcere di Poggioreale, padiglione Avellino, stanza 31 che ospitava 25 persone, strappo due pagine dal vangelo, perché in quelle pagine trovo il mio nome, quel nome che la camorra mi aveva tolto per sostituirlo con un soprannome. Strappando queste due pagine, con questo gesto, mi sono ripreso il mio nome.

Cosa ti ha spinto ad entrare nella camorra? Il facile guadagno? Hai detto che guadagnavi novecentomila lire al giorno ed eri solo un ragazzo, stavi facendo carriera. Cosa ti ha spinto ad aprire la Bibbia? Cosa ardeva dentro di te?

Ci sono delle cose che ci vengono a cercare, come la poesia. Com’è successo a Neruda. La poesia è quella cosa che accade nel posto più impensabile. Nel momento più impensabile. Accade e basta. Io mi vergognavo anche che fosse la Bibbia e mi chiedevo che cosa c’entrasse con me. Che c’entra con me? Io sono una persona spietata. A me piace fare la malavita. Mi vergognavo a causa del giudizio degli altri. Come succede oggi ai nostri ragazzi, che spesso vivono in base al giudizio degli altri. Il giudizio degli altri è potente, più potente di quello che io penso di me. Il dramma dei ragazzi di una periferia come Scampia è questo. Il fascino della malavita è forte. Questo minaccia la libertà e l’identità: io chi sono? Io non sapevo chi fossi, sapevo chi fossi per gli altri. I ragazzi soffrono questa condizione di sudditanza.

Cosa può aiutare i ragazzi?

Bisogna ritornare alla terra. Alla natura. Bisogna ritornare alle montagne, ai fiumi, ai laghi. Alla bellezza. Bisogna ritornare all’arte. Bisogna ritornare liberi e la stessa natura che oggi ci minaccia ci salverà.

Se dovessi consigliare un libro ad un ragazzo?

Io non so dare consigli. Io leggo poesia russa. Consiglierei gli Scritti corsari di Pasolini. Leggo Majakovskij, Iosif Brodskij, il primo che ho letto è stato Dostoevskij, le Memorie dal sottosuolo, Achmatova, Cvetaeva, Pasternak. Mi piace molto anche il portoghese Saramago, ho trovato molto bella la sua autobiografia. Ho amato Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez. Infine Bukowski, il poeta ubriacone. Mi basta questa letteratura e mi sento il campione del mondo.

Qual è il ruolo della scuola?

La scuola deve cambiare. Deve ripartire all’aperto. Aperta e stare all’aperto. Deve considerare i Pierini. Alle maestre viene più facile segnare le assenze che i sorrisi dei bambini. Bisogna ascoltare i bambini. Parlare di meno e ascoltare di più. La scuola di oggi è distante. Gli insegnanti devono sforzarsi di conoscere la morale dei ragazzi, quel dolore muto che non parla. Non funziona lo schema: io sono quello che insegna, tu sei quello che impara.

Tu parlavi in dialetto, poi sei passato all’italiano. Perché?

Il napoletano è la mia lingua madre. Ho subìto, patito, il fatto di parlare solo il napoletano, lingua bellissima, poetica, teatrale. Sono stato molti anni al nord e ho dovuto imparare l’italiano. È stata una sfida. Ma è sbagliato correggere i bambini quando parlano in napoletano dicendo loro: parla bene! Come mi è capitato a volte di sentir fare a qualche mamma. I bambini devono imparare l’italiano ma devono conoscere anche il napoletano.

E come stai vivendo la contingenza dettata dal Covid?

Non la sto vivendo male. Certo mi dispiace molto per chi è morto. Ma ritengo che essa rappresenti l’opportunità affinché ci mettiamo davanti alla domanda: cosa abbiamo fatto? Vedere quanto è successo a Bergamo, città bellissima che conosco bene, vedere i furgoni dell’esercito, pensare agli anziani che se ne sono andati. Gli anziani trasmettono la speranza, il futuro. La mia paura è che finito il Covid finisca tutto e noi non abbiamo capito niente. Vedi, oggi manca la memoria e se la memoria non viene utilizzata allora muore.

Parlaci del tuo cambiamento.

Ho incontrato le persone giuste che hanno ucciso in me quello che era morto. E hanno rimesso in vita l’io. Hanno tirato fuori quello che già c’era. Questa è l’educazione. Noi nasciamo più dagli incontri che facciamo che dai libri che leggiamo, come dice un amico poeta francese Christian Bobin.

(Nicola Bombace)