“Quando Romolo morì, molti anni dopo aver seppellito Tito Tazio, i romani dissero ch’era stato il dio Marte a rapirlo e a condurlo in cielo per trasformarlo in dio, il dio Quirino. E come tale da allora in poi lo venerarono come fanno oggi i napoletani con san Gennaro”.
Questo è l’incipit di un capitolo de La Storia d’Italia di Indro Montanelli dedicato alle origini di Roma e che per caso mi è ricapitato tra le mani in questi giorni. A colui che è stata una delle più brillanti penne (se non la più brillante) del giornalismo italiano devo l’amore per la lettura e per la storia. La prosa del giornalista di Fucecchio culla il lettore come poche; quando poi narra le vicende della storia, la rende amabile perché lo proietta nelle vicende del passato allo stesso modo con cui si legge un articolo di cronaca, il che ha fatto del mitico Indro uno dei più seguiti divulgatori degli eventi italici. Tuttavia, la sintesi giornalistica difficilmente si accompagna al rigore storiografico; se a ciò si aggiunge che il laicissimo Montanelli non è mai tenero con le vicende domestiche della Chiesa (che nella storia italiana ha avuto un indiscutibile ruolo di primo piano), ne consegue che i giudizi su di essa e i suoi protagonisti risultano viziati da pre-giudizi evidenti.
Le righe sopra riportate dicono qualcosa in più; di esse, in tutta sincerità, non serbavo alcuna memoria e, rilette a molti anni di distanza, mi hanno strappato un sorriso e, soprattutto, una certa meraviglia per quante domande potessero sorgere vedendo l’insolito accostamento tra i cittadini dell’Urbs e i conterranei di Eduardo. Che relazione ci può mai essere tra gli antichi romani e i napoletani del XX secolo (quando scrive il giornalista)? Che c’entra Romolo con San Gennaro? Può paragonarsi la devozione ad un dio frutto del mito al culto di un santo legato visceralmente alla città? Che ne poteva sapere Montanelli di come i Romani veneravano Romolo? Può essere lecito e fondato il dubbio che il giornalista, in fondo, sapesse poco o nulla su cosa consistesse veramente il rapporto tra San Gennaro e i napoletani?
I romani avevano bisogno di rendere mitiche le origini della città, esigenza sentitissima tant’è che Virgilio, dopo sette secoli ad urbe condita, ci riprovava ancora con l’Eneide. Per san Gennaro il mito c’entra come il cavolo a merenda, se è vero che è un personaggio reale la cui esistenza è storicamente verificabile.
Il triplice annuale prodigio (e non miracolo!) dello scioglimento del sangue è solo ciò che oggi “fa notizia”, spesso collocato tra il folklore e lo scetticismo; ma sarebbe un errore limitare a quell’evento il legame tra la città e il Santo. Infatti, il primo “miracolo” ufficiale è collocato da un cronista medievale (Cronichum Siculum) precisamente il 17 agosto 1389 allorquando annota, con stupore, il fenomeno della liquefazione del sangue, ben oltre 1000 anni dopo il martirio del protovescovo di Benevento. La devozione dei napoletani per san Gennaro, invece, nasce quasi coevamente alla sua morte. Decapitato nel 305 d.C. durante la persecuzione di Diocleziano, i suoi resti già nei primi anni del 400 d.C. furono trasportati nelle bellissime catacombe site nell’odierno quartiere della Sanità, da subito meta di devoti e fedeli tanto che ne presero il nome per non perderlo mai più, nonostante per 600 anni le spoglie fossero state traslate prima a Benevento e poi presso l’abbazia di Montevergine, nei pressi di Avellino. L’attaccamento dei napoletani per san Gennaro rimase, comunque, intatto.
Peraltro, il rapporto che Napoli ha con i santi è del tutto particolare, tant’è che nell’arco di duemila anni ha scelto ben 52 santi protettori. Chi pensa che questo sia solo un fenomeno legato ai secoli bui del Medioevo si sbaglia di grosso; infatti, la più recente è Santa Rita da Cascia, proclamata co-protettrice della città nel 1929. Il lunghissimo elenco trova molti santi legati alla città per averci vissuto e operato; qualche nome? San Tommaso d’Aquino, che a Napoli scrisse la Summa Theologica e al quale “vis a vis” parlò un crocefisso ancora oggi esistente e gelosamente custodito nella splendida basilica di San Domenico; San Gaetano Thiene, che raccoglieva intorno a sé i ragazzi dei vicoli e inventò il presepe così come lo conosciamo oggi e che rivive nei tanti artigiani di S. Gregorio Armeno; San Francesco di Paola, che ammonì il Re di Napoli a non vessare oltremodo il popolo napoletano facendogli vedere il suo sangue che sgorgava da una moneta d’oro facente parte di una offerta, rifiutata, per la costruzione di un santuario; Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, nato a Napoli e dottore della Chiesa, che compose l’originale versione di “Tu scendi dalle stelle” (Quanno nascette ninno). Insomma, i napoletani hanno con i santi un rapporto carnale, una familiarità generata da una convivenza con persone e in luoghi precisi, collocabili nel tempo e nello spazio che, quasi a certificare questa carnalità vissuta, trova nel prodigio della liquefazione del sangue di San Gennaro la sua massima espressione, il suggello di una vita che non smette mai di pulsare a dispetto dei secoli che passano.
Altro che mito! Il buon Indro, stavolta, ha toppato clamorosamente; alla semplificazione giornalistica si è unito il doppio pregiudizio sulla Chiesa e sui napoletani, facendo torto al loro sano rapporto con il sacro, costruito e custodito nei secoli. Però sono sicuro che San Gennaro, ora che sono entrambi nel mondo della Verità, non glielo avrà fatto pesare, tingendo il tutto con la tipica ironia napoletana.
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