Mi ritrovavo poco più di un anno fa in una storica pasticceria di Napoli specializzata nella produzione di babà, situata in via dei Tribunali, in pieno centro storico. Dovevo comprare una ventina di quei piccoli capolavori della pasticceria per un degno finale di un pranzo per degli amici del Nord che avrei dovuto incontrare il giorno dopo. La giovanissima commessa mi informò che se avessi aspettato qualche minuto avrei potuto prendere quelli che “stavano uscendo belli freschi freschi”; decisi di seguire il consiglio, incoraggiato dal profumo proveniente dal laboratorio che avrebbe reso più godibile l’attesa. Nei dieci minuti che aspettai l’epifania dei babà, acquistarono dei dolci rispettivamente: una allegra famiglia spagnola di 4 persone, due ragazze inglesi e una coppia olandese (quest’ultima aveva una cadenza come quella di Marco Van Basten e io, da vecchio tifoso milanista, l’ho riconosciuta immediatamente). La gentile commessa, non credevo alle mie orecchie, interloquiva con gli avventori in un basico ma decisamente corretto inglese.



L’episodio è riemerso dai meandri nella mia memoria nei giorni scorsi quando ho ripercorso le strade del centro storico desolatamente vuote, soprattutto dei turisti, anche e soprattutto stranieri, che in questo periodo, ma non solo, riempivano (nel periodo natalizio nel senso letterale del termine) le strade dei Decumani e di San Gregorio Armeno.



Da quando è iniziata la pandemia, non si fa altro che dire che quello che è successo nel 2020 determinerà un cambiamento di abitudini e modi di concepire il modo di vivere, ivi compreso quello di viaggiare e fare turismo. Per Napoli la circostanza meriterebbe più di una generica riflessione su flussi turistici e ristori.

In Campania vi sono tanti attrattori turistici: la Costiera amalfitana, Capri, Ischia, Pompei (ove si aggiunge il richiamo del Santuario altrettanto, se non più potente, degli scavi archeologici), il Cilento. Queste zone, però, hanno una vocazione turistica antica e alcune di queste addirittura sono molto esclusive (si pensi a Capri e Positano), ragion per cui, probabilmente, per la tipologia dell’offerta turistica, non faticheranno a ritrovare la loro dimensione nell’epoca post-Covid.



La città di S. Gennaro, a dispetto delle sue enormi potenzialità (paesaggistiche, storiche, artistiche e, non ultime, culinarie), ha invece una vocazione turistica molto più recente, risalente alla fine degli anni 90. Oggi Piazza del Plebiscito è considerata una delle più belle piazze d’Italia (e forse del mondo); eppure, negli anni 80 era una zona di parcheggio selvaggio con annessi parcheggiatori abusivi, come testimoniano alcune scene del mitico film Mi manda Picone di Nanni Loy del 1983. Nello stesso periodo, da studente universitario frequentavo le zone del centro storico e ricordo che uscire di sera non era tanto salutare. Prima della pandemia, le stesse zone erano frequentatissime dai turisti, sufficientemente sicure e piene di piccole attività imprenditoriali.

La prima grande vetrina fu il G7 organizzato nel 1994 all’epoca del cosiddetto “rinascimento napoletano”. Da allora è stato un continuo crescendo, fino ad arrivare al 2019 quando l’aeroporto di Capodichino ha accolto ben 10,9 milioni di passeggeri, con un incremento del 9% rispetto al 2018, contro una media degli aeroporti italiani del 4%, risultando essere l’aeroporto italiano cresciuto di più nell’anno.

La città all’inizio non era preparata; forse, non era nemmeno consapevole delle sue potenzialità turistiche. Si è dovuta adeguare cammin facendo, imparando a sfruttare le occasioni che si presentavano. Due esempi: la ristorazione, che ha visto un proliferare di piccole e grandi attività, e la ricettività alberghiera. A Napoli si poteva scegliere tra i grandi alberghi a 5 stelle del lungomare o gli alberghi a due stelle dai confort meno che essenziali; la città era del tutto inadeguata ad accogliere i grandi numeri del turismo di un livello medio, per cui molti erano di passaggio a Napoli ma difficilmente si fermavano in città. Nel tempo più che alberghi a tre stelle è sorto un brulicare di Bed & Breakfast e case-vacanza, soprattutto nel centro storico.

Tuttavia, per Napoli, fermarsi ai soli numeri del turismo sarebbe un errore madornale. Il continuo afflusso di turisti (favorito da un clima che consente di godere della città per tutto l’anno) è stato per la città un continuo stimolo non solo a confrontarsi con realtà diverse ma, soprattutto, quasi ha costretto le zone della città interessate dal fenomeno a migliorare anche sotto l’aspetto sociale, proprio per cercare di dare il meglio possibile, anche in termini di immagine, a chi veniva da molto lontano. Un detto popolare dice che “’u trattà fa ‘mparà”, “il trattare fa imparare”; Napoli e i napoletani, trattando con il numero sempre più crescente dei turisti hanno anche imparato a “fare turismo”, migliorando il contesto di zone prima famose più per la cronaca nera che per le sue bellezze; in questo per niente supportati dalla politica e dalle istituzioni e a dispetto di mai risolte contraddizioni e permanenti condizionamenti ambientali (la camorra, per intenderci) che restano questioni drammaticamente ancora irrisolte (vedi l’attentato dell’anno scorso alla storica pizzeria Sorbillo).

Insomma, per Napoli il turismo non è solo un volano economico ma una possibilità di continuo miglioramento per la città, come la storia di questi ultimi 20 anni ha dimostrato. Questo è stato possibile innanzitutto per l’iniziativa di tanti napoletani che, a qualcuno sembrerà strano, si sono rimboccati le maniche e hanno creato tante piccole realtà economiche che hanno contribuito a migliorare, dal basso, la città.

Se i turisti, italiani o stranieri che siano, ritornano in massa a Napoli, non solo si riprende il Pil e l’occupazione ma si offre alla città l’occasione di migliorare, anche socialmente; speriamo che i politici, oltre a pensare a chi intitolare gli stadi o a minacciare involuzioni cromatiche, lo capiscano.