Nell’anno uno della nuova era pandemica, stiamo tutti incominciando a percepire come “il cambiamento” ineluttabile che il Covid portava con sé non fosse solo una idea di pochi visionari ma una concreta realtà.
Al di là delle frasi iperboliche che sono spesso usate e i paragoni con epoche storiche passate (la più ricorrente è quella con il secondo dopoguerra), è sotto gli occhi di tutti che tante cose sono mutate irreversibilmente. Oggi, prendendo un’affollata metropolitana e guardando con un certo sollievo che tutti indossavano disciplinatamente la mascherina, ho pensato che molto probabilmente sarà una regola di cortesia e galateo continuare ad utilizzarla quando si frequenteranno luoghi affollati al chiuso.
Con i comportamenti delle persone, più o meno indotti, finiscono per cambiare inesorabilmente anche alcuni contesti urbani. Il Centro direzionale di Napoli, per esempio, era un tempo un luogo dalla doppia faccia; la mattina un brulicare frenetico di attività legate ad uffici pubblici e privati con un consistentissimo indotto costituito da negozi di abbigliamento, bar e ristorazione varia; il pomeriggio, dopo le 17, diventava un contenitore più o meno vuoto, con attività limitatissime legate soprattutto agli studi professionali.
La rivoluzione nel mondo del lavoro costituita dall’introduzione massiva dello smart working nell’epoca della pandemia ne ha stravolto la fisionomia; per chi è solito frequentarlo (come gli avvocati che sempre meno si recano nel Palazzo di Giustizia che lì trova la sua sede), non sarà difficile notare un notevolissimo “calo di “presenze” tra l’era a.c. (ante coronavirus) e il d.c. (dopo coronavirus); il sarcasmo è facile e di bassa lega ma mi è venuto spontaneo e, per questo, lo lascio.
Al di là delle battute, qualche riflessione occorre farla. Il Centro direzionale è la prima cosa che chi entra in città via autostrada vede di Napoli. Tanto per capire di cosa stiamo parlando, è l’unico complesso di grattacieli d’Italia nonché dell’Europa meridionale. Giulio De Luca, architetto napoletano, lo immaginò per risolvere il problema della congestione del traffico della città facendo correre le auto sottoterra mentre in superficie dovevano vivere le persone fra giardini e strade libere.
Un idealista, penseranno in tanti. Fatto sta che questa è l’idea che, successivamente, ispirò la City di Milano; la sfida era così ambiziosa che non tardarono a raccoglierla i migliori architetti dell’epoca, a partire dal mitico giapponese Kenzo Tange per finire a Renzo Piano (quello del Ponte di Genova, del Centro Pompidou a Parigi ecc. ecc.), Massimo Pica Ciamarra e Nicola Pagliara, che hanno lasciato nel Centro direzionale la loro firma; se avete qualche amico architetto, pronunciate questi nomi in sua presenza e vedrete se non starà almeno 10 minuti con sguardo trasognante prossimo all’estasi!
Fino al 2010, la Torre Telecom che è posta all’inizio del complesso, alta appena, per modo di dire, 129 metri, è stata il grattacielo più alto di Italia; ora si assesta (solo) al nono posto (i primi otto sono tra Milano e Torino).
La domanda sorge spontanea: può una metropoli come Napoli, sempre giustamente indicata come la capitale del Mediterraneo, correre il rischio di dilapidare un patrimonio, non solo immobiliare ma anche di idee, considerate le energie intellettuali che sono state coinvolte per la sua realizzazione? Ci si può arrendere all’idea che il Centro direzionale si trasformi, progressivamente ma ineluttabilmente, in una scatola vuota a causa del cambiamento delle politiche, delle strategie e delle abitudini lavorative del post Covid-19?
Strano a dirsi, le elezioni amministrative si avvicinano e nessuno dei candidati sindaci, o presunti tali, si è posto il problema. Purtroppo, a meno di tre mesi dalla tornata elettorale, i partiti sono ancora impelagati nelle candidature, figuriamoci se ci si può aspettare dagli stessi che parlino di programmi; che abbiano una idea di città e di futuro della città è, allo stato, solo una mera utopia.
Di aree urbane irrisolte, purtroppo, Napoli ne ha diverse e da tempo immemore: Bagnoli, l’area orientale, Scampia, solo per citarne alcune. Per non parlare dell’immenso patrimonio immobiliare privato del centro che potrebbe trovare nel superbonus del decreto legge cd. “Rilancio” una occasione unica di riqualificazione; allo stato, di fatto, è ostacolata dai troppi paletti posti dalla norma e dal fatto che la non “esemplarità” sotto l’aspetto urbanistico degli immobili non è, purtroppo, un’eccezione, con conseguente non ammissibilità ai benefici della legge. Senza ipotizzare una fattiva collaborazione con la macchina comunale, quella dell’ecobonus è un’occasione destinata a smaterializzarsi in un nulla di fatto.
Il presidente Mattarella nel suo discorso del 2 giugno ha paragonato i nostri tempi a quelli dei primi anni della Repubblica sottolineando che quello presente “è il tempo di costruire il futuro”; il presidente del Consiglio Mario Draghi, in un suo recente intervento, ha parlato di “una voglia di ricominciare e sprigionare le proprie energie produttive e imprenditoriali, la propria visione del mondo”.
Purtroppo o per fortuna, “futuro” e “visione del mondo” passano attraverso la concretezza delle proposte e della loro successiva attuazione; società civile, futuri sindaci e partiti politici, indipendentemente dall’esito delle urne, non possono permettersi il lusso di bypassare la sfida. L’imperativo è categorico: si “deve” avere un’idea della città in una prospettiva di ampio respiro e non appena elettorale. Pena non il degrado, ma lo sfaldamento progressivo e ineluttabile di ciò che faticosamente ha costituito il collante di una società anche in un periodo difficile come la pandemia, dalla quale speriamo di essere finalmente prossimi all’uscita.
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