Napoli è tra i set cinematografici più gettonati in assoluto. Non si contano le fiction ambientate nella città: amori, crimini di vario genere, malavita organizzata e non, disagi sociali, storie di eroismo e santità, indagini più o meno complesse, a Napoli trovano l’ambientazione ideale. Se poi si aggiunge qualche escursione in costiera (amalfitana o sorrentina è indifferente, tanto sono splendide entrambe) il cocktail diventa irresistibile. Non c’è racconto che a Napoli non si possa ambientare, che si tratti di santi o di criminali più o meno organizzati.
Viste dall’esterno sono tutte storie molto ben riuscite e i riscontri di pubblico e di gradimento lo confermano. Lo sfondo, però, è bene saperlo, non è affatto realistico. Napoli, quella che i suoi cittadini vivono ogni giorno, non è quella che si vede in queste fiction, nel bene e nel male; non è quella efferata di Gomorra né quella piccolo-borghese di Un posto al sole.
La realtà di un contesto, prima ancora che dai luoghi, è definita dalle persone che ci vivono e queste fiction spesso sono ben lontane dal descriverla. Anzi, poiché storie e personaggi sono strumentali (giustamente) alla efficacia della trama, finiscono per essere fuorvianti rispetto alla realtà che, invece, vorrebbero rappresentare.
In Mina Settembre (ultima fortunata fiction Rai), per esempio, c’è una scena in cui, in un flashback nell’adolescenza della protagonista, il padre di questa, affermato professore universitario e luminare nel campo dell’oculistica (quindi uno della Napoli ultraperbene), elargisce una lauta mancia ad un parcheggiatore abusivo con famiglia a carico. La figlia, con tanto di occhi strabuzzanti, chiede al papà come mai derogasse al suo “credo” fatto di coerenza e rispetto delle regole. L’illustre professionista nonché padre amatissimo le spiega che le regole sì, vanno rispettate, ma che prima delle regole vengono le persone; quindi non bisogna correre nel dare giudizi affrettati e, talvolta, à lecito derogare di fronte a situazioni particolari.
Non voglio entrare assolutamente (non sarebbe nemmeno la sede adatta) nella più che altro giornalistica contrapposizione tra chi sbandiera la “legalità che va perseguita ad ogni costo e in ogni dove” (anche nelle fiction) e il giudizio sulle vite di persone che la mattina devono trovare un modo per sbarcare il lunario. Posso, però, assicurare che alla stragrande maggioranza dei napoletani la categoria del “parcheggiatore abusivo” è particolarmente invisa e che ci sono poche cose così fastidiose come la “cortese” richiesta del parcheggiatore che, poverino, “tiene famiglia” pure lui. L’obolo, controvoglia elargito, non è mai l’esito di preventive valutazioni sociali, anzi!
La scena, pertanto, finisce per essere poco credibile o, quanto meno, non rispecchia per nulla né il fenomeno né ciò che la gente, che quotidianamente con esso deve fare i suoi conti spiccioli, di esso pensa; passa però l’idea di un luogo (guarda caso Napoli) dove, se si vuole, tutto può trovare una plausibile giustificazione.
Purtroppo, ogni episodio della fiction, che pure è ben riuscita grazie alle storie ben cucite e alla bravissima Serena Rossi, indulge su alcuni aspetti che vorrebbero essere “tipici” di una presunta napoletanità che, invece, sono quanto di più distante da quello che pensano e, soprattutto, vivono ogni giorno i cittadini partenopei.
La cosa che suona più strana è che queste storie sono pensate e scritte da napoletani. La domanda sorge spontanea: vuoi vedere che il cliché torna comodo per rendere più “vendibili” queste storie, sia pure a dispetto di ciò che la città è davvero? Fosse così, gli autori non rendono un buon servizio a Napoli.