DA NAPOLI. La notte dello scorso 4 ottobre, alle 4.20 circa, l’angolo tra Via Duomo e Via Marina, nel pieno centro di Napoli, offriva uno spettacolo devastante ai pochissimi passanti: uno scooter insanguinato, di lì a poco trasportato davanti alla questura, e il corpo esangue di Luigi Caiafa, trafitto da tre proiettili esplosi da un agente della squadra falchi. Luigi, appena diciassettenne, e il suo complice Ciro de Tommaso, diciottenne, hanno raggiunto una Mercedes a bordo di un motorino rubato e, stringendo tra le mani una pistola finta, tentavano di sottrarre quanto più possibile ai passeggeri. L’epilogo è stato il peggiore e a farne le spese è stato Luigi, il più giovane.
I quotidiani locali raccontavano i precedenti per droga del ragazzo, e quindi l’inserimento in un percorso di recupero. Dopo il primo arresto Luigi si è scoperto, d’improvviso, parte di una comunità incarnata spesso in un volto e in quelle realtà umane che sono le associazioni. Questo volto, per Luigi, era don Antonio Carbone.
Il parroco racconta di un ragazzo che vedeva un’ipotesi di luce. Anche dalle parole del padre emerge che Luigi aveva intenzione di cogliere l’occasione di recupero procuratagli (aveva seguito un corso per imparare il mestiere di pizzaiolo nella comunità di don Carbone, e lavorava due ore al giorno in una pizzeria vicino a casa sua in regime di “messa alla prova”): voleva lavorare, avere un figlio con la sua ragazza e andarsene via da Napoli.
Da queste testimonianze è possibile trattenere che il seme dell’intervento istituzionale di recupero stava germogliando, ma qualcosa non ha funzionato. Luigi staccava dal lavoro e davanti a lui si stendevano le strade vertiginosamente buie di Forcella; sulle pietre scalfite dei palazzoni riecheggiavano i suoi consueti problemi, la sua eterna marginalità. Ne ho discusso con Emanuele Cerullo, autore tra il 2007 e il 2016 di due raccolte in versi, nato e cresciuto nella Vela Celeste di Scampia.
Vorrei discutere con te su questo fatto gravissimo, che a distanza di dieci giorni è passato decisamente in sordina: a Via Duomo non c’è più traccia di Luigi, né sui giornali, nemmeno nelle discussioni per strada o sui social.
“Quello che, secondo me, è altrettanto stucchevole, è l’autocritica che viene a mancare da parte delle istituzioni: bisogna anche dire che non sempre le competenze vengono premiate, anche il mondo del terzo settore non sempre è in buone mani. Ci sono molti arrivisti anche nell’ambito dell’associazionismo, che diventa spesso una sorta di prolungamento dell’organo politico-amministrativo. Questo per dire che anche in queste situazioni di tentativi di recupero dei giovani in fondo non sempre si tratta di impegno civile autentico da parte di questo settore, perché, purtroppo, come in ogni settore del tessuto economico-sociale del paese, c’è una fetta che trasforma le opportunità per i giovani in mere opportunità di carrierismo anche politico. Io sono stanco di chi si riempie la bocca di illegalità e antimafia, ma in realtà non fa nulla per contrastare la criminalità organizzata. Ma quelle parole diventano un’area utile per riempire il palloncino che diventa sempre più grosso. Così come sono stanco della mancata autocritica dell’ambito familiare. Ho apprezzato molto il padre di Ugo Russo, che lamentava il fatto che i ragazzi non fossero seguiti. Ma il mondo giovanile è così difficile e complesso che non è per niente facile entrare nelle teste di questi ragazzi. Inoltre, c’è la società contemporanea che ti spinge ad avere tutto e subito, qui e ora. C’è anche questo edonismo di massa che si traduce nel possedere a tutti costi; Premetto che il recupero per me è sacro, fondamentale: preferisco di gran lunga una riflessione sul disvalore del misfatto, piuttosto che una pena e basta”.
È possibile che il percorso di recupero sia stato troppo debole e abbia solo rafforzato la sfiducia verso le istituzioni?
“Non so se veramente si può parlare di sfiducia verso le istituzioni, bisogna capire innanzitutto se c’era un’alternativa concreta anche in quelle due ore al giorno. Se una cosa ti piace davvero, non c’è fatto che ti impedisca di seguire quella vocazione. Certo, sicuramente qualcosa è andato storto, come qualcosa è andato storto nel percorso di Ugo (Ugo Russo, quindicenne ucciso da un carabiniere che tentava di rapinare, ndr). Forse bisognerebbe insistere di più su questi ragazzi, forse bisognerebbe eliminare dalla forma mentis di molti strati della popolazione, soprattutto quelli bassi, l’idea dello Stato come nemico, che comunque ha senso perché questa sfiducia nelle istituzioni non è un odio fine a sé stesso, è un senso di indignazione malcelata che nasce comunque dall’assenza dello Stato in determinati territori. Per me, insomma, dobbiamo predicare meno la parola legalità e sostituirla con il concetto di giustizia sociale”.
Credi sia reciproco quest’atteggiamento che hai ricordato di sfiducia e diffidenza, cioè dello Stato verso gli abitanti di determinate realtà territoriali?
“No, non è reciproco. Da parte delle istituzioni c’è proprio indifferenza, non odio, perché l’odio deriva da qualche forma di rapporto o di relazione. Questa non c’è assolutamente. In senso generale la politica non è radicata localmente nel territorio, e purtroppo nella maggior parte dei casi l’amministrazione locale è ovviamente più legata all’aspetto economico. Le politiche economiche sono relegate ad una forma da un lato di assistenzialismo e dall’altro da forme di inclusione che dovrebbero essere declinate diversamente o quantomeno in modo più efficace”.
Parliamo, dunque, di presenza statale a livello territoriale. Molto spesso questa avviene attraverso la scuola. È lecito chiedere, a questo punto, se la scuola funzioni in maniera corretta e in che modo si possa concretamente agevolare il rapporto con ragazzi che vivono una certa realtà.
“La scuola è afflitta da tanti problemi. Penso innanzitutto all’edilizia. Ci sono molti problemi proprio strutturali all’interno della scuola che non sono stati risolti in questi anni. Questa cosa mi preoccupa molto perché evidentemente ci vuole ancora non poco tempo. Già questo comporta un dispendio di tempo e di energie non indifferente. La scuola è ferita, e quando non è ferita è un’azienda. La presenza della scuola nel territorio può influire molto sulla crescita di ogni ragazzo; dovrebbe, però, ascoltare sempre i giovani, e invece purtroppo si perde in progetti che rischiano di far allontanare ancora di più la platea scolastica. A questo aggiungo un’altra piaga, che è la dispersione. A tal proposito ritengo che dovrebbe essere creata una vera e propria task force di servizi sociali e di educatori competenti, non improvvisati. Occorre un piano straordinario, e andrebbero fin dalle scuole educate le giovani generazioni al lavoro: non deve essere visto come qualcosa che ti faccia guadagnare tantissimo, ma quel che basta, ecco. E questo si inserisce nel discorso che facevo prima riguardo al possedere tutto, l’opulenza, che è figlia dei nostri tempi. Educare a una determinata concezione del lavoro potrebbe modificare determinate aspettative individuali. Non c’è, tuttavia, scuola senza famiglia. Nel patto di corresponsabilità non c’è solo la scuola ma c’è anche la famiglia. Va anche individuato il problema specifico e bisogna inoltre capire quali siano le mancanze di ognuna. E non si possono risolvere queste mancanze realizzando, ad esempio, dei progetti come laboratori di ceramica rivolto alle donne e alle mamme. Perché quando tornano a casa i problemi persistono. E con questi progetti di ceramica non si è fatto altro che arricchire le tasche di presunti professionisti e della scuola, che percepisce i fondi europei; al contempo la donna, la mamma torna a casa e i problemi persistono. Il presidente della regione Campania non può dire che sta combattendo la dispersione scolastica con progetti pomeridiani, e poi tra i partecipanti ci sono solo alunni con voti altissimi. Non significa nulla! Non puoi nemmeno risolvere il problema delle rapine piantando telecamere in città. La sicurezza non è solo urbana, è domestica: Se il padre di famiglia torna a casa, e non ha i soldi per andare avanti, e il figlio ha una determinata concezione del lavoro, si possono installare tutte le telecamere del mondo e fare tutti i progetti che vuoi, ma il cambiamento dov’è?”
La riflessione a cui ci ha portato la testimonianza di Emanuele Cerullo è che la causa della morte di Luigi Caiafa è da ricercare nei più disparati ambiti e livelli della società: le istituzioni, laddove sono presenti, funzionano male o in ritardo. Sarebbe di assoluta priorità incentivare un rapporto bilaterale tra l’istituzione, come può essere quella scolastica, e le famiglie affinché la risposta soddisfi con prontezza ed efficacia una domanda che proviene dal basso e affinché venga realizzato un principio di sussidiarietà che non sia solo retorica o propaganda.
E la situazione dei ragazzi come Luigi diventa facilmente un argomento politico e retorico, traducendosi, nel concreto, in misure inadeguate e, come ci ha raccontato Emanuele, molto spesso fini a sé stesse; ma il dialogo deve nascere e sopravvivere innanzitutto nelle mura domestiche, al fine di non accentuare l’isolamento e la fragilità mentale dei ragazzi che non conoscono, a questo punto, altra realtà di quella che li seduce per strada e che viene propagandata con un ritmo frenetico fin dentro le mura domestiche, a tavola a ora di cena, sul comodino di notte, e sempre in tasca durante il giorno. Occorre, dunque, agire in tutti gli ambiti e a tutti i livelli, perché la situazione è grave: un ragazzo è morto. Di nuovo, esattamente come a fine febbraio e come l’anno scorso, e ancora l’anno precedente. Il cambiamento culturale, l’educazione al dialogo e al lavoro sono prioritarie, affinché una madre possa tornare a casa e non piangere un figlio morto, affinché un uomo possa guardare il suo quartiere come un luogo dignitoso, familiare, e non come un ghetto infernale da cui scappare attraverso qualsiasi mezzo; e perché Luigi non si spenga, di nuovo, ogni giorno.