DA NAPOLI. Il fenomeno Covid sta lasciando una profonda ferita, non solo nell’economia, ma anche nell’anima della nostra società. La speranza è certamente che la pandemia finisca il prima possibile, ma non dovremo dimenticare l’insegnamento che ci ha portato. Nessuno può continuare a vivere da uomo restando fermo sulla sua posizione. Allora evolversi, cambiare la direzione dello sguardo, diventa non più un calcolo ma una necessità.



Mi ha molto colpito che in questi giorni dove tanti chiudono la loro attività, dove tanti restano col fiato sospeso sperando di sopravvivere all’uragano, ci sia un giovane ristoratore che dieci giorni fa ha inaugurato il suo ristorante in provincia di Avellino. Marco ha deciso di aprire il suo locale, Copé. Tutti quelli che gli sono vicini hanno cercato di dissuaderlo, di fargli rinviare l’apertura, ma non c’è stato alcun tentennamento da parte sua: “Io voglio aprire”.



Lo incontriamo con Massimo, suo commercialista, ma soprattutto uno dei suoi più cari amici e sostenitori, per capire meglio le ragioni del suo gesto. Il motivo è spiazzante: “Il Covid – ci  racconta – ha solo accelerato un processo che è dentro la  mia natura: mi ha costretto oggi ad evolvere. Il punto fondamentale è che non aspetto che i clienti vengano da me, ma io devo raggiungerli sul loro bisogno, sulle loro aspettative, sulla loro visione della vita”.

Incalziamo con le domande per capire se si tratti di uno slogan o se al fondo ci sia altro: “Molti per il delivery si stanno organizzando in Italia. Marco, dove è la novità nella tua mossa?”.



“Ho osservato i miei clienti – risponde –. Nel 2006 uno su dieci aveva problemi alimentari, oggi siamo al 50%. Prima erano affezionati alla pietanza, oggi sono molto interessati alla qualità dei prodotti che concorrono alla preparazione, hanno una maggiore consapevolezza dei metodi di cottura. Allora io parto da questa semplice osservazione e mi evolvo, puntando tutto su chi è il mio cliente e cosa posso offrirgli andando io da lui”.

Marco è giovane, ma non è un ristoratore improvvisato. Ha avuto difficoltà serie che abbatterebbero chiunque, eppure si mostra fiducioso ma non astratto, pieno di speranza ma consapevole della grave crisi del settore, sereno ma non superficiale. E allora gli chiedo: “Ma tu non temi che il nuovo ristorante, tra l’altro molto bello, rischi di fallire in poco tempo?”.

“Sono consapevole del rischio e della grave crisi che sta colpendo questo settore. Pur avendo la mia famiglia, che è il mio più grande supporto, e amici come Massimo, so benissimo che non tutto dipende da me e che potrebbe andare male. Ma io oggi per la prima volta posso rischiare, puntando su come ho sempre immaginato il mio futuro: le modalità con cui fare il ristoratore sono costretto ad applicarle ora, in questa circostanza, per costruire il mio futuro. Ed in ultima analisi io voglio essere felice, voglio che attraverso la scelta dei prodotti e lo studio di ciò che offriamo possa trasparire che io mi realizzo, che sono felice e un po’ di questo mio essere passa anche a chi incontro”.

Da questo incontro mi è stato chiaro che l’emergenza Covid può renderci immobilizzati, depressi e rabbiosi, oppure può farci diventare pieni di realismo, facendo emergere il meglio di noi e la capacità di rischiare il proprio talento: ci si evolve se si tiene a cuore la propria felicità.