Della bellezza di Napoli non si discute. Napoli è bellissima. Dio si è divertito. Il golfo più bello del mondo, diceva un mio amico capitano di lungo corso, mai ne ho visto uno di pari bellezza, e bellissima è la natura colorata e densa di profumi, bellissimo è il Vesuvio che dall’alto sovrasta e superbamente compie il divino disegno. Bellissime le piazze, i vicoli, i palazzi, gli antichi splendori di una capitale europea. Se dunque la bellezza di Napoli è indiscutibile, cosa possiamo dire dei napoletani?



Questo articolo racconterà due storie. Due exempla. Uno antico tratto dalla penna del Boccaccio e reso immortale al cinema da Pasolini, l’altro conosciuto. In essi si rivelano due aspetti del popolo napoletano: nella prima storia il lettore incontrerà un popolo con una viscerale, carnale capacità di osservazione, che spoglia il forestiero di tutto; nella seconda storia incontrerà un popolo che per natura costruisce relazioni, va incontro all’altro, lo soccorre, se ne prende cura.



Un detto antico recita che Napoli è un paradiso ma un paradiso abitato da diavoli. Benedetto Croce ha tenuto una conferenza alla Società napoletana di storia patria (12 giugno 1923) sul significato storico e sull’origine di una sì pesante sentenza e una sì palese contraddizione, secondo la quale a Napoli coinciderebbero paradiso e inferno, cielo e terra. Luogo di opposti inconciliabili, inquieto paradosso.

Il Boccaccio nel Decameron ci racconta la storia di Andreuccio, il quale “venuto (da Perugia) a Napoli a comperar cavalli” si reca al Mercato, uno dei più antichi quartieri di Napoli con la Vicaria, il Pendino e il Porto, “sì come rozzo e poco cauto più volte in presenza di chi andava e di chi veniva, trasse fuori questa sua borsa de’ fiorini che aveva”. Napoli ha una cultura antica, genuina, religiosa, anti-accademica, barocca. I napoletani osservano l’altro, lo scrutano a fondo, fin nei più profondi recessi, i più intimi, per capire chi hanno di fronte. Don Giussani ci ha insegnato con una frase del Nobel Alexis Carrel che molta osservazione e poco ragionamento (quello che ha perso il senso della terra e del cielo) conducono alla verità. Ecco il napoletano per sua natura è così. Osserva, scruta! Che cosa succede ad Andreuccio, un ingenuo forestiero che vuole fare affari a Napoli? Napoli lo illude con gli occhi di una splendida sirena che si offre a lui come una sorella, lo invita a casa sua, gli offre un pranzo sontuoso, lo mette a letto. L’ingenuità di Andreuccio tuttavia è la sua salvezza. Andreuccio non si fa domande e segue quello che accade. Durante la notte “era il caldo grande: per la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimasto, subitamente si spogliò […] e richiedendo il naturale uso di dovere diporre il superfluo peso del ventre, dove ciò si facesse domandò [a] quel fanciullo (un servo personale messogli a disposizione in segno di ospitalità, nuda), il quale nell’uno de’ canti della camera gli mostrò uno uscio e disse: – Andate là entro”.



Qui Andreuccio cade in un tranello, cioè cade letteralmente perché cede l’asse che lo regge e nella caduta si ritrova nel più basso e lordo dei luoghi, nudo e senza la sua borsa coi denari. Ha perso tutto. Napoli gli ha preso tutto. “Oimè lasso, in come piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini e una sorella!”. Finito per strada, dopo aver bussato alla porta della sorella e aver chiesto disperatamente aiuto, viene brutalmente cacciato dal vico Malpertugio che poc’anzi lo aveva accolto come uno di famiglia.

Aggirandosi per la città nello sconforto e nello sgomento, perduto (chi perde la propria vita la troverà) e “a se medesimo dispiacendo per lo puzzo che a lui di lui veniva”, si imbatte in due briganti, dai quali prova a nascondersi, ma il puzzo che emana li attira ed essi lo stanano, lo traggono a sé con forza per costringerlo a realizzare i propri piani criminali.

La leggenda vuole che l’arcivescovo di Napoli Filippo Minutolo fosse nella chiesa maggiore (il duomo) “sepellito con ricchissimi ornamenti e con uno rubino in dito il quale valeva oltre cinquecento fiorin d’oro”. La notte più buia della vita di Andreuccio. “Essendo già mezzanotte, n’andarono alla chiesa maggiore, e in quella assai leggiermente entrarono e furono all’arca (la tomba), la quale era di marmo e molto grande”; i due obbligano Andreuccio a calarvisi e lì lo abbandonano, tirandosi nella fuga con parte del bottino il puntello che reggeva il coperchio gravissimo. Chiuso in una tomba di pietra Andreuccio sperimenta la più grande solitudine in stretta compagnia di un morto, al quale però aveva sfilato il prezioso anello. Un rumore si intensifica e un altro manipolo va “a fare [quello] che esso co’ suoi compagni avean già fatto”, aprire l’arca per derubar il morto! Ma la presenza di Andreuccio, ancorché terrorizzata più di tutti, terrorizza i marioli e li mette in fuga. “La qual cosa veggendo Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito si gittò fuori e per quella via onde era venuto se ne uscì dalla chiesa; e già avvicinandosi al giorno” che vuol dire che la notte è finita!

Sembrerebbe Andreuccio il protagonista di questa novella ma non è così. Napoli è una città che accoglie con un’ospitalità nobile e generosa, per poi togliere tutto. Napoli spoglia, mette a nudo, obbliga a guardare negli occhi la miserabile e vera umanità. Napoli educa. Maestra di un eterno romanzo di formazione il cui epilogo è a lieto fine. L’ospite finalmente viene rivestito ma questa volta non indossa gli abiti della furbizia, della tracotanza, della presunzione, gli abiti che indossava quando è arrivato a Napoli, ma indossa gli abiti che più gli sono propri, gli abiti dell’uomo, tesori preziosi come i gigli dei campi.

(1 – continua)