“Tutto chiede salvezza. Come vivere se tutto bruciasse nel niente” è il titolo dell’incontro che Arcipelago Napoli ha tenuto venerdì 9 aprile con due ospiti importanti, il premio Strega Daniele Mencarelli e il direttore del carcere minorile di Nisida Gianluca Guida.
I due ospiti si presentano. Due esperienze apparentemente diverse ma nella sostanza unite da una medesima visione delle cose. Alla giovinezza turbolenta e dolorosa di Daniele, a fronte della quale capisce che ognuno ha un destino e che si paga nella vita anche una sola serata vissuta a 20 anni, fa da contrappunto la vita “normale” di Gianluca, una giovinezza vissuta nei valori della fede cattolica. Gianluca si definisce non solo lavoratore, ma padre, marito, amico.
“Un uomo che contempla i limiti della propria esistenza non è malato, è semplicemente vivo”. La scienza ha oltrepassato i propri confini epistemologici e si è posta come arbitro del bene e del male, giudice in terra di ciò che è normale e di ciò che non lo è. Come ha fatto Daniele a non lasciarsi determinare da una diagnosi che catalogava la sua disperata domanda di significato come sintomo di una patologia?
“La letteratura è stata la mia salvezza” afferma Daniele. “Quella letteratura, quella poesia, che già ai miei tempi, negli anni 90, era lettera morta. La mia generazione non andava in libreria. La funzione della letteratura di rappresentare quel luogo che incrocia e incontra il presente, il quale per questo assume un significato, è stata annullata nella seconda metà del Novecento. Oggi viviamo nell’epoca della sola dimensione scientifica, quale unico perimetro della nostra natura. Prima la realtà era descritta da una pluralità di lingue. Oggi qualcuno crede ancora nella letteratura? Crede ancora che la letteratura possa assolvere il suo naturale compito di offrire una lettura del presente? Che consenta una comprensione della realtà? La letteratura, attenzione, e non la storia della letteratura! Ho avuto la fortuna di conoscere dei poeti che difendevano una parte di me da chi faceva della persona che sono un problema da risolvere. Mi hanno aiutato delle parole che sapevano raccontare di me salvandomi dal rischio di giudicarmi come un caso patologico”.
Daniele intende liberare la letteratura da un equivoco ormai da tempo di moda, da lui definito come “mitizzazione del maledettismo”. Lo scrittore, nonostante riconosca nei propri anni di formazione, nella propria giovinezza, una difficile e inquieta esperienza, anni in cui ha rischiato tanto e rispetto ai quali si considera un sopravvissuto, con Pasolini afferma che “si è poeti malgrado la malattia, non grazie alla malattia”. “La mia poesia non è nata perché ho fatto uso di cocaina o perché sono stato sottoposto a un Tso. Oggi il compito degli adulti, degli educatori, consiste proprio nel demitizzare questa tendenza autodistruttiva che va avanti da due secoli. Il club dei 27, il problema delle dipendenze, l’assunzione di sostanze, la malattia mentale, i reati minorili, tutto questo purtroppo dipende anche da una narrazione. Bisogna fare attenzione a costruire un mito rispetto a percorsi che devono fare a meno necessariamente della normalità”.
Domandiamo a Gianluca: “Che cosa scorgi negli occhi dei ragazzi che arrivano a Nisida?” “I ragazzi di Nisida sono molto simili a quel ragazzo che ha vissuto l’esperienza del Tso. I ragazzi che arrivano da noi sono molto arrabbiati. Questa rabbia a volte è estroversa. Molte volte tuttavia c’è una rabbia più pericolosa, una rabbia che implode. Una rabbia di cui i ragazzi non sanno trovare le motivazioni. Non si sono mai posti il perché di questa rabbia. Le sue radici. La vivono, la subiscono. Ne sono vittime. Sono dilaniati dalla rabbia. Questa rabbia si associa ad una percezione di vuoto, rispetto alla quale pochi riescono a trovare una strada di uscita e un aiuto. Percezione bulimica tendente a riempire quel vuoto con condotte esasperate e portate al limite, che siano il reato, il sesso, le sostanze, relazioni umane esasperate. Questa voracità patologica impedisce loro di comprendere le ragioni del vuoto. Anche noi adulti siamo in difficoltà in tal senso e questo ci porta, come viene descritto nel romanzo di Daniele, a trovare delle soluzioni nelle etichette. Di definire con un nome, di inquadrare il bisogno, le difficoltà del ragazzo. Un piano di oggettivazione che purtroppo rischia di allontanarci dalla relazione con il ragazzo stesso. Relazione che forse è l’unica cosa di cui ciascuno di noi ha realmente bisogno. A Nisida abbiamo scoperto che qualsiasi cosa sia espressione del bello aiuta a trovare un’identità e quindi una via d’uscita. Purtroppo la società sta tralasciando il bello. In cambio del bello effimero stiamo buttando via il valore del bello reale. Del senso del bello e della pienezza che ne deriva”.
Il direttore del carcere spiega con la favola di Cappuccetto Rosso come la narrazione condizioni le nostre azioni. Nella narrazione comune i ragazzi che arrivano a Nisida sono i cattivi. “Ecco, noi a Nisida operiamo su questa narrazione per modificarla e trovare un punto di ripartenza. Nella storia di Cappuccetto Rosso, la prima favola con la quale siamo stati educati a relazionarci con i cattivi, la parte del cattivo naturalmente è interpretata dal lupo. I buoni sono Cappuccetto Rosso e la nonna. Il cacciatore è l’eroe. Noi siamo sicuri che i ruoli siano esattamente questi? Alla fine il lupo cattivo è un lupo che vive nella foresta e fa quello che la sua natura di lupo gli detta, vale a dire cerca cibo. Non sarebbe diventato il lupo cattivo se Cappuccetto Rosso non fosse andata nella foresta. La storia alle volte prende delle pieghe strane. Forse la mamma non avrebbe dovuto mandare la bambina nella foresta, o almeno avrebbe dovuto metterla in guardia nel modo giusto. D’altro canto Cappuccetto Rosso è una bambina e come tale vuole sperimentare il pericolo. Ed è così che deve andare un processo di crescita. Entra quindi nel bosco perché pensa di saperlo affrontare. La nonna, forse in maniera egoistica, invece di vivere con la mamma di Cappuccetto Rosso, evitandole in tal modo i pericoli del bosco, resta a casa sua con la pretesa che qualcuno si occupi di lei. Il cacciatore aspetta il momento giusto per intervenire nella storia e palesare il proprio eroismo, quando in fin dei conti sapeva già che nel bosco c’era il lupo e che Cappuccetto Rosso era in pericolo. Perché aspettare l’ultimo momento? Inoltre la scena più cruenta di tutta la storia ce la offre proprio il cacciatore, che squarcia la pancia del lupo. Noi ci lasciamo condizionare da come la storia deve andare. Daniele all’inizio diceva che c’è un destino. E c’è un destino anche per il lupo. C’è un’altra storia che a me piace raccontare in seguito a questa, nella quale c’è un animale selvatico e un bambino curioso. È la storia del piccolo principe. Ha una dinamica diversa: la volpe spiega al piccolo principe che ciò che permette di cambiare la storia delle persone è creare dei legami. Delle relazioni che abbiano una qualità diversa. Quello che cerchiamo di fare a Nisida è proprio questo, creare relazioni che abbiano qualità, cioè che abbiano senso. E che in questo modo riescano a dare un contenuto a quel vuoto profondo che i ragazzi vivono ma al quale non sanno dare un nome”.
Un ultimo aspetto dell’intervento di Gianluca merita di essere ricordato, quando ha raccontato di ragazzi che scontata la pena tornano a Nisida per dimostrare che ce l’hanno fatta. Chi da solo, chi con la ragazza, chi con un figlio. Per testimoniare a chi è detenuto che ce la può fare anche lui. E chi è dentro, provocato da questa esperienza, promette a sé stesso e alla comunità che ce la farà e che anche lui un giorno tornerà da ex a Nisida a testimoniare la propria riuscita. Perché ritornano? Che cosa hanno incontrato di così importante se sentono il bisogno di ritornarvi?
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