Caro direttore,
può, oggi, la scuola essere ancora affascinante per un insegnante? Al di là del lavoro svolto quotidianamente per dovere e visto che si tratta di un’attività svolta alla presenza di esseri umani pensanti e giudicanti, mi viene da riflettere su quanto e quando siamo coinvolti come persone nel rendere affascinante ciò che diciamo. Diversamente da mansioni in uffici asettici, dove il coinvolgimento con la vita dell’altro non c’è, o se c’è non è invasivo, compromettente, coinvolgente come quello dell’insegnante, il ruolo di un docente ha insito nella sua prerogativa esistenziale quella di entrare in rapporto, chinarsi, affacciarsi, proporsi, eventualmente rompere rapporti con i colleghi e, inesorabilmente, mostrarsi agli alunni che lo ascoltano, che lo seguono, lo giudicano.



Quanto l’essere di fronte ad una classe può risultare ancora attraente tanto da emozionarsi ogni volta che si entra in classe e quanto, invece, è il risultato schematico di un dovere di stampo accademico, che suggerisce solo il rigetto nozionistico di ciò che uno pensa di aver appreso? Tralasciando quello che dovrebbe essere lo “studium” etimologicamente parlando, cioè passione, inter-esse (cioè interazione, coinvolgimento), la posizione umana di un docente è, oggi, questione assolutamente prioritaria. Il porsi come docente implica in maniera oggettiva, penso, il problema del coinvolgimento di chi fa questo mestiere.



Ma che cosa affascina, cosa mi fa alzare al mattino con il desiderio di incontrare la 3B e preparare strategie per coinvolgere Fabio, che è completamente disorientato e pensa soltanto a disegnare i manga? “Prof, lei mi vuole bene più di mio padre!” Mi ha detto Fabio l’altro giorno quando gli ho portato delle fotocopie sugli eroi che vede in tv. “Esagerato” gli ho detto “ho solo il desiderio di comunicarti quella che è la mia passione per l’arte e per la vita”. Abbracciare l’umanità di ciascuno di loro è ciò che rende affascinante la mia professione di insegnante.

Un paio di settimane fa siamo stati travolti da un fatto tragico: il nostro vicepreside è morto e, nella disperazione di tanti, alunni e docenti, abbiamo provato con alcuni colleghi a porre ai ragazzi, in classe, la questione. Chi ha raccolto dei pensieri che sono stati esposti fuori dalla chiesa in occasione dei funerali; chi, come me, ha fatto disegnare le sensazioni provate in maniera astratta, attraverso linee, punti e colori. Ogni disegno era accompagnato da spiegazioni dei ragazzi. Sono uscite delle cose incredibili, soprattutto incredibili a loro stessi che erano partiti con il classico “Prof, cosa devo scrivere, cosa devo disegnare?”.



Di fronte al loro lavoro ho cominciato a percepire quanto la sensibilità di un ragazzo possa essere più pura rispetto al cinismo di un adulto, che anche in un caso come quello della scomparsa di un collega si sofferma sugli aspetti giornalistici o formali dell’accaduto e non sul fatto che un amico è venuto a mancare. Ho percepito che realmente possiamo prenderci cura l’uno dell’altro solo se ci prendiamo cura di noi stessi.

Ecco, il fascino della scuola in questi anni è aumentato ogni volta che mi sono messo in discussione, quando sono stato messo in crisi, direi; e tutto questo è capitato solo quando dentro le cose, nei rapporti tra colleghi, nel rapporto con i ragazzi mi sono messo in gioco, quando la materia dell’arte è diventata strumento per entrare in comunione con l’altro, quando la scuola è diventata luogo di incontro, luogo in cui desiderare che accadesse un incontro.

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