Domenico Arcuri indagato dalla Procura di Roma è emersa ieri come notizia ma è da mesi che il caso mascherine è all’attenzione dei magistrati, tanto che lo scorso sabato l’ex commissario straordinario all’emergenza Covid-19 davanti ai pm ha provato a difendere l’intera sua posizione resa complessa dalle accuse di corruzione, peculato e abuso di ufficio.
Secondo quanto emerge negli ampi stralci degli interrogatori mostrati oggi sul “Corriere della Sera”, Arcuri ammette che nei primi mesi della pandemia «eravamo disperati. C’era una guerra commerciale devastante» e bisognava trovare voli cargo senza scali «per non rischiare che le mascherine venissero bloccate in un altro Paese». Si difende e rivendica addirittura i risultati ottenuti con lui alla guida della struttura commissariale: «perché ho accettato l’offerta di Mario Benotti?» (sponsor di una ditta cinese di mascherine, ndr), «Era l’offerta più vantaggiosa di quelle ricevute».
LE ACCUSE DI ARCURI AI POLITICI
Comincia allora davanti ai pm nelle circa 3 ore di interrogatorio la “difesa” di Domenico Arcuri, con tanto di nomi di politici che avrebbero cercato di procacciare materiale Dpi nei giorni caldissimi della pandemia tra gennaio e aprile 2020. «Mi spiego con alcuni esempi. Il senatore Mallegni (di Forza Italia, ndr), mandò un’offerta per mascherine Kfn4, con consegna in Corea, escluso il costo di trasporto, al prezzo di 80 centesimi cadauna… Non essendo stato sottoscritto il contratto, è diventato ospite fisso di trasmissioni televisive», attacca il presidente di Invitalia, coinvolgendo anche l’allora senatore di Forza Italia (oggi in FdI, ndr) Lucio Malan, «tramite Enzo Saladino offre mascherine lavabili, ma il Cts risponde che non sono nemmeno valutabili». Davanti al rifiuto di Arcuri, racconta lo stesso ex commissario, «Malan inizia una schiera numerosa di interrogazioni parlamentari». L’elenco di “denunce” fatte da Arcuri coinvolge anche il deputato di Italia Viva Mattia Mor: «presenta offerta di due signori cinesi» da 55 centesimi per ogni mascherina», e pure Irene Pivetti. Con tutte queste offerte e proposte, conclude Arcuri davanti ai magistrati romani, «sono risultate largamente meno vantaggiose di quella di Benotti». Eppure c’è quella provvigione monstre da 12 milioni di euro intascati dal giornalista-imprenditore (secondo l’’accusa), e su questa Arcuri si difende: «L’importo noto mi lascia basito forse più di voi». L’ex commissario spiega di non aver contattato lui Benotti ma di aver ricevuto una sua proposta come tante altre e di aver scelto perché più vantaggiosa: il peculato in questione sarebbe invece, per l’accusa, il fatto che Arcuri fosse consapevole della “cresta” per l’imprenditore e che abbia accettato un prezzo più alto da pagare ai cinesi. Infine, l’abuso d’ufficio deriverebbe dal «non aver fatto un regolare contratto ai mediatori», mentre sulla corruzione gli stessi pm hanno richiesto l’archiviazione. «Per me erano dei promotori o procacciatori d’affari che operavano nell’interesse delle aziende esportatrici. Non avevo necessità di mediatori. Avevo fatto divieto di sottoscrivere contratti con soggetti diverse dalle aziende. E non si pagano acconti a nessuno, neppure sotto tortura», conclude Arcuri spiegando come il 21 marzo arriva la proposta che viene poi girata alla struttura, «Da quel momento Benotti e i suoi collaboratori interagiscono con le persone della struttura, e iniziano una trattativa del cui sviluppo io non so nulla». Infine Arcuri nega di aver detto a Benotti il 5 maggio (il loro ultimo incontro, ndr) che vi fosse un’indagine dei servizi segreti sulla fornitura di mascherine in oggetto: «Iniziò a essere eccessivamente dilagante e importuno, percepivo che stesse esagerando e ho scelto di allontanarlo. Ho cercato educate e gentili ragioni per fargli comprendere che non avevo tempo per quanto mi proponeva. Non ho mai pronunciato le parole “servizi” o “indagine”», conclude l’interrogatorio citato dal “CorSera”.