Sardegna. Sperduto in mezzo a monti e vallate c’è un edificio grande e fatiscente, una specie di stella con un cuore rotondo e bracci che gli scappano via. È un carcere da cui i detenuti stanno per essere trasferiti in altri istituti di detenzione. Non tutti, però. Per dodici di loro il trasferimento non può essere effettuato. Devono restare lì fino a nuovo ordine. E con loro un piccolo gruppo di guardie carcerarie sotto il comando dell’ispettore Gaetano Gargiulo.
Quando il film Ariaferma comincia ci si sente catapultati dentro questa realtà particolarissima e cruda, ci si respira dentro. Cammini con le guardie lungo i corridoi dai muri scrostati, stai nelle celle devastate con i dodici reclusi e poi con il tredicesimo, il giovane Fantaccini che ritorna lì per l’ennesima volta dall’ultima casa famiglia in cui era ospitato. La prima mezz’ora del film è segnata da questa immersione fin dentro ogni più piccolo dettaglio degli spazi del carcere, da una introduzione e iniziazione a questo luogo preciso, reale e concretissimo, da questo inabissarsi dentro la sua muffa, la disperazione che lo ha abitato e lo abita. Ma anche dalla sempre più evidente consapevolezza che quel posto è anche ogni posto: è un mondo vero ed è il mondo simbolico che ti chiude in un abbraccio soffocante e opprimente. E la storia vive tutta come dentro una sospensione: è una situazione anomala, una specie di arresto del tempo in attesa che qualcosa – che doveva avvenire e non è avvenuto – avvenga.
“L’ordine di trasferimento può arrivare da un momento all’altro”, dice l’ispettore Gargiulo a Carmine Lagioia, un boss della camorra che è tra i detenuti in attesa di trasferimento. L’atmosfera è quella da deserto dei tartari, come già qualche critico ha notato. Ma ben presto, in questo tempo sospeso e imprevisto, accadono situazioni altrettanto impreviste e improvvise grazie alle quali guardie e detenuti sono costretti a gettare via le maschere, ad abbandonare le certezze che i ruoli avevano costruito per loro.
I giorni passano e la galera non è soltanto il luogo in cui sono rinchiusi i colpevoli: con loro sono chiusi lì i guardiani e noi che siamo stati tirati dentro queste mura. I giorni passano e il castello kafkiano diventa lo spazio estremo, la condizione – peste e cecità, Camus e Saramago insieme – in cui ciascuno è chiamato a decidere chi essere. I giorni passano e l’ordine di trasferimento non arriva, i pasti forniti da un catering esterno sono immangiabili. I carcerati iniziano uno sciopero della fame, Lagioia chiede a Gargiulo di poter utilizzare la cucina del carcere: cucinerà lui per tutti, detenuti e guardie. L’ispettore accetta: a Lagioia si aprono corridoi che erano stati chiusi, si consente l’accesso all’orto, l’uso dei coltelli. Il cibo è buono e va bene per tutti. Fantaccini, che aiuta in cucina, ha un momento di fragilità, si nasconde in una delle celle: Gargiulo e Lagioia lo cercano insieme, senza nemmeno pensare alle regole. Lo stesso fragile e indifeso Fantaccini chiederà all’ispettore di potere aiutare un vecchio detenuto isolato e odiato dagli altri: la scena che si svolge di notte in quella cella diventa un quadro di Caravaggio, una sorta di deposizione con il giovane che spoglia il vecchio e lava via lo sporco da quel cadavere di uomo vivente, dal suo corpo bianco.
Niente è più simbolico della realtà. A confermarlo di nuovo una situazione imprevista che si viene a creare mentre ai detenuti viene servita la cena: l’intera vallata rimane senza energia elettrica, l’ispettore consente ai carcerati di portarsi al centro della zona su cui si affacciano le loro celle, nel cuore di quella stella buia. Ciascuno porta fuori il proprio tavolo, la propria sedia, le guardie portano le torce. Ci si siede tutti intorno alla tavola. I carcerati servono il cibo nei piatti delle guardie. Persino il vecchio pedofilo trova posto lì, grazie ancora all’intervento di Fantaccini: un altro quadro, una sorta di ultima cena, anche se non sarà l’ultima.
Niente è più simbolico della realtà: quando Fantaccini deve andarsene perché deve subire il processo, anche il boss lo guarda come per accompagnarlo dentro un bene a cui tutti sono destinati. Lagioia non era il male? No. Attraverso pochi drammatici fatti, attraverso lunghi drammatici sguardi, viene cancellata la frase rivolta all’inizio del film da Gargiulo a Lagioia: “Io e te non abbiamo niente in comune”, come a dire che le cose sono chiare, che c’è chi sta dalla parte del male e chi sta dalla parte del bene. Il film è il racconto di queste due facce che si specchiano l’una nell’altra: la faccia di rughe di Gaetano – un enorme Toni Servillo – i suoi occhi lanciati oltre le regole e le convenzioni, incontrano quelli quasi malinconici e ricchi di una pacata saggezza di Carmine Lagioia – un altrettanto magnifico Silvio Orlando. È in questi due personaggi, nel loro sempre più evidente rispecchiarsi, ciascuno prendendosi cura dell’altro e degli altri come la situazione lo consente; è nel dialogo profondo e silenzioso tra le loro anime nude che si consumano il dramma e la rinascita di un’umanità ferita e – contro tutte le apparenze – innocente.
Possiamo accennare appena alla felice regia di Leonardo Di Costanzo, alla fotografia, alla musica, alle luci che sapientemente accarezzano o feriscono i personaggi, accompagnandoli in una vicenda che coinvolge anche noi che guardiamo in una continua tensione. In una lenta discesa dentro la fragilità, il limite e le storture di un mondo che è il nostro mondo; di un luogo così particolarmente e maniacalmente descritto nel dettaglio da diventare un luogo universale in cui si giocano i destini degli uomini. Di tutti gli uomini.
Come succede per le grandi opere, come succede per la grande poesia, anche qui quello che viene raccontato con le immagini accade davvero, chiedendo a ciascuno di noi quella stessa conversione dello sguardo di cui, attraverso il film, noi siamo testimoni.
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