Da qualche anno a questa parte assistiamo a una tendenza, potremmo così definirla, con cui registi di un certo calibro decidono di elaborare la propria infanzia attraverso film autobiografici che raccontino, più o meno esplicitamente, il percorso che li ha portati a scoprire il cinema. Di solito sono film in cui al centro c’è un evento drammatico privato (la separazione dei genitori, come in Roma di Cuaròn) o pubblico (i troubles come in Belfast di Branagh) oppure un sogno talmente grande da superare ogni avversità (il cinema, come in The Fabelmans di Spielberg, anche questo alla Festa del cinema di Roma).
Per il suo Armageddon Time, James Gray sceglie invece un’altra strada, non condensa la sua esistenza infantile attorno a un singolo evento, ma prova a raccontare quel periodo nella sua complessità, nel suo non essere lineare, cercando però un’imprevista semplicità. Paul (Michael Banks Repeta) è l’alter ego del regista, un ragazzino di New York che va alla scuola pubblica perché i genitori possono permettersi solo la retta del figlio maggiore; qui, stringe amicizia con un ragazzo povero e afroamericano e comincia a coltivare la passione per il disegno e la pittura (al posto del cinema). Tutto pare cambiare quando la famiglia decide di spostarlo nel prestigioso college del fratello, dove dovrebbe ricevere la giusta disciplina.
Gray, anche sceneggiatore, è sempre stato un fautore di un certo neo-classicismo nel racconto e nello stile piano, profondo, molto vicino ai personaggi, in cui le immagini servono a comunicare ciò che provano e vivono, in cui l’azione è un segno di espressione tanto quanto lo è di racconto. Armageddon Time porta questo modo di fare cinema al punto più rarefatto e “minimale” del percorso del regista, eppure onestissimo, perché prima che a uno spettatore o a un produttore, Gray deve rendere onore e portare rispetto soprattutto a se stesso e alla sua famiglia. Questa semplicità di racconto in cui la drammaturgia diventa sottile, tenuta come un basso continuo lieve ma efficace, permette al regista di dare conto delle mille sfumature dell’infanzia.
L’impressione superficiale è quella di un film stanco, o persino inerte, ma basterebbe notare il modo in cui chiede agli attori di interpretare la complessità del reale senza chiudersi nella caratterizzazione, il colore delle immagini di Darius Khondji in grado di sfuggire a ogni nostalgia, le dolcezza di presenze “fantasmatiche” come quella del nonno (Anthony Hopkins) e dell’amico Johnny (Jaylin Webb), la densità politica dietro ai personaggi (Reagan e Trump, il privilegio bianco) e al contempo, la sincerità con cui sfida lo schematismo pur di aderire al punto di vista del suo piccolo protagonista, per dare ad Armageddon Time i suoi giusti meriti.
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