L’11 gennaio del nuovo anno, Putin ha ricevuto il presidente azero Ilham Aliyev e il primo ministro armeno Nikol Pashinian, primo vertice trilaterale dopo l’armistizio del 10 novembre che ha posto fine alla seconda guerra del Nagorno Karabakh.

Il motivo dell’incontro risiede nella volontà di far rispettare alle parti l’articolo 9 dell’armistizio che chiede di provvedere alla libertà di transito nella regione e in modo particolare vede l’Armenia impegnata nel non ostacolare il passaggio tra l’Azerbaijan e l’enclave azera del Nakhchivan in territorio appunto armeno. A vigilare sul rispetto del trattato di pace vi è la polizia di frontiera russa.



Non si tratta solo di una questione di libertà di movimento, e nemmeno di riconoscimento dell’autonomia di alcuni territori. Questo atto sancisce i nuovi rapporti di forza tra Erevan e Baku, a favore di quest’ultima. In modo particolare, la situazione del Caucaso meridionale vede: 1) la vittoria sul campo dell’Azerbaijan sull’Armenia nella guerra dei 44 giorni; 2) il ruolo della Turchia come alleato dell’Azerbaijan e come attore principale nella regione; 3) l’accettazione da parte della Russia della nuova realtà in cambio del mantenuto ruolo di mediatore in grado di intrattenere buoni rapporti con entrambi gli attori, bilanciando l’alleanza con l’Armenia con la “partnership strategica” con il paese musulmano; 4) la capacità da parte di tutte le parti in causa di passare da una situazione di guerra ad una fase fredda, diplomatica; 5) l’assenza di azione delle potenze e degli organismi occidentali, dall’Unione Europea all’Ocse, che con il gruppo di Minsk aveva il compito di mediatore dopo il conflitto precedente, e ai distratti Stati Uniti, fatto salvo una puntata un po’ velleitaria di Macron in funzione antiturca. In ultimo, c’è da segnalare la messa fuori gioco dell’Iran, strano alleato dell’Armenia, per altro fino al 1828 territorio iraniano.



Se alle parole seguiranno i fatti, grazie alle pressioni di Mosca, l’apertura del corridoio di transito tra le due parti in conflitto permetterà il collegamento tra Azerbaijan e Turchia via Nakhchivan e Syunik. In cambio, l’Armenia vedrà le frontiere con i due paesi riaprirsi mettendo fine all’isolamento degli ultimi 27 anni e potrà connettersi via Azerbaijan tramite linea ferroviaria con la Russia, proprietaria della rete armena, mentre la Russia avrà aperta la strada verso l’Iran. Grandi movimenti quindi.

Per chiudere, tre osservazioni sulla natura delle guerre post guerra fredda. Queste guerre avvengono in aree geografiche ai margini e di confine tra ex imperi, in questo caso tra l’Impero russo e quello iraniano e ottomano, nei territori contesi da sempre in un guazzabuglio etnico religioso di notevole complessità aumentata dai nuovi interessi economico energetici. Tensioni congelate dalla guerra fredda che sono esplose alla sua fine. Con il risultato di scatenare conflitti di difficile gestione, perché per giunta avvengono in un’area dove fino ad ora non vi era nessun chiaro equilibrio di forze regionali.



Il secondo confitto armeno-azero, inoltre, ha riproposto un modello classico di guerra limitata, simmetrica, scontro armato tra stati sovrani avvenuto per obiettivi territoriali che si è svolto in tempi contenuti, nonostante i teorici delle new wars, tra gli altri Mary Kaldor, avessero dato per obsoleta se non defunta questa tipologia, spodestata dai così detti conflitti asimmetrici, combattuti tra forze non statali, dalla durata infinita come, ad esempio, la guerra in Afghanistan e in Iraq. Ma la realtà ha più aspetti della teoria; il fatto è che la guerra è sempre la stessa, mentre a cambiare sono le condizioni storiche in cui avvengono le diverse guerre, e sempre diversi i contesti strategici e di sicurezza, i motivi e le tipologie dei contendenti. E le nuove guerre, le guerre asimmetriche, le guerre ibride, quelle di quarta generazione, possono sempre convivere con la vecchia guerra limitata tra stati nazionali sovrani.