Continuano le proteste in Armenia, con il governo che ha represso le manifestazioni di Tavush per la Patria, il movimento che chiede le dimissioni del primo ministro Nikol Pashinyan, accusato di aver ceduto territori all’Azerbaigian. A guidare il movimento è l’oppositore Bagrat Galstanyan, arcivescovo accusato invece da media ed esperti filo-governativi e dall’Occidente di essere finanziato dalla Russia per organizzare le proteste. Stando a quanto riportato da Diario Armenia, sono state arrestate 284 persone dalla polizia, che avrebbe anche cercato di entrare con la forza negli uffici del partito Federazione Rivoluzionaria Armena (FRA) per arrestare deputati che godono dell’immunità: «Più di sei dozzine di agenti di polizia hanno cercato di fare irruzione nel centro del FRA “Simon Vratsyan”, provocando e attaccando i leader del partito, che hanno vietato l’ingresso illegale nell’ufficio», recita una nota del partito, secondo cui decine di poliziotti, «usando apertamente la violenza fisica, hanno trattenuto i cittadini, tra cui il presidente dell’organo supremo del FRA armeno, il deputato Ashot Simonyan». Il dito è stato puntato contro il primo ministro, accusato di aver «trasformato le istituzioni e gli organi statali in strumenti del crimine», ma è stato anche lanciato un appello a livello internazionale a chi si occupa di diritti umani e democrazia, affinché vengano valutate le azioni del governo armeno.
L’Ufficio dell’Ombudsman per i diritti umani dell’Armenia ha segnalato che «sono stati registrati casi in cui l’uso della forza contro una persona è continuato in condizioni in cui la persona era già sotto il controllo degli agenti di polizia» e rilevato «molti casi di detenzione senza presentare una denuncia legale, senza chiarire le ragioni e i motivi della detenzione dei cittadini, senza informare le persone dei loro diritti minimi». Anche il Consiglio panarmeno dei diplomatici è intervenuto a difesa dei manifestanti, segnalando che «la rivolta iniziata con la richiesta di profondi cambiamenti in Armenia si è trasformata oggi in un movimento di dissenso popolare» il cui obiettivo è ottenere le dimissioni del governo che, «salito al potere con slogan democratici, ha iniziato a utilizzare l’intera serie di strumenti di repressione contro i partecipanti alle azioni pacifiche e i loro sostenitori». L’organismo segnala arresti diffusi, licenziamenti ingiustificati, intimidazioni, ma anche la repressione in corso nei confronti della popolazione dell’Artsakh, «che è stata privata della propria patria solo pochi mesi fa a seguito della pulizia etnica e della politica genocida scatenata dall’Azerbaigian». Si parla anche di una campagna senza precedenti contro la Santa Chiesa Apostolica Armena, che «viola direttamente i principi fondamentali dei diritti umani e delle libertà e provoca un’escalation interna e di intolleranza».
284 ARRESTI PER LE PROTESTE DI MASSA IN ARMENIA
Le proteste si sono intensificate dopo che il 19 aprile il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha annunciato di aver raggiunto un accordo con l’Azerbaigian per la cessione unilaterale dei territori della regione di confine del Tavush. Si tratta del processo di delimitazione dei confini nella regione di Tavush, i cui accordi si basano sulla Dichiarazione di Alma-Ata del 1991, in base alla quale le repubbliche post-sovietiche accettano di preservare i confini del periodo sovietico. Ci sono state inizialmente proteste su piccola scala in tutta l’Armenia, con blocchi stradali e manifestazioni pacifiche che però sono state represse dalla polizia.
Il 4 maggio è nato il movimento Tavush per la Patria, il cui leader è l’arcivescovo Bagrat Galstanyan, primate della diocesi di Tavush, il quale durante un comizio a Yerevan ha chiesto le dimissioni di Nikol Pashinyan e annunciato azioni di disobbedienza civile pacifica fino alle dimissioni di Pashinyan o fino alla sua rimozione da parte dell’Assemblea nazionale tramite una procedura di impeachment. Il 26 maggio è stato annunciata la candidatura dell’arcivescovo Bagrat Galstanyan a primo ministro.
COSA E CHI C’È DIETRO LE PROTESTE IN ARMENIA?
Ma diversi esperti ritengono che dietro le proteste ci siano Stati e organizzazioni straniere, danneggiati dalla risoluzione del conflitto tra Armenia e Azerbaigian, come Russia e Iran. Per quanto riguarda i russi, J. Epstein, fellow dello Yorktown Institute su Newsweek ha spiegato perché la fine del conflitto è svantaggiosa per il Cremlino: «È stata storicamente il guardiano della sicurezza del conflitto tra Armenia e Azerbaigian. Per oltre tre decenni, Mosca ha giocato a fare da paciere, vendendo armi a entrambe le parti e impedendo una vera soluzione per mantenere entrambi i Paesi alle sue dipendenze. Ma l’influenza della Russia nella regione è diminuita negli ultimi anni». Uno degli obiettivi del primo ministro armeno Pashinyan, secondo il think tank israeliano Begin-Sadat Center for Strategic Studies, è quello di eliminare completamente la dipendenza russa.
Per l’analista israeliano Kedar dietro le proteste ci sarebbe anche l’Iran, perché «teme che una soluzione pacifica del conflitto di quasi 200 anni tra Armenia e Azerbaigian possa privare l’Iran dell’influenza regionale. In particolare, l’Azerbaigian sta spingendo per creare un corridoio di trasporto Zangezur che lo collegherà con l’enclave azera di Nakhichevan, che l’Iran vede come una minaccia al suo confine con l’Armenia». Per anni, infatti, «l’Armenia è stata il suo principale mezzo per aggirare le sanzioni. Ma l’attuale leadership armena ha deciso di “andare a ovest” a causa del declino dell’influenza della Russia nella regione». Il think thank parla di molte conferme riguardo contatti diretti tra la leadership della Chiesa armena e quella iraniana: si parla, ad esempio, di incontri a porte chiuse con esperti iraniani. Per quanto riguarda le proteste, il rischio è che in caso di caduta del governo, salti l’accordo di pace tra Armenia e Azerbaigian, quindi per il Begin-Sadat Center for Strategic Studies «la regione precipiterà sicuramente in un altro scontro militare».