“Con un’abile manovra parlamentare, Meloni è riuscita a trasformare il dibattito sugli aiuti all’Ucraina in un’occasione per ricompattare la maggioranza e sottolineare le divisioni nell’opposizione”. Le parole sono trascritte dalla prima pagina di un quotidiano – La Stampa – e firmate da un commentatore – Marcello Sorgi – che non possono essere in alcun modo sospettati di simpatie per la premier e per il suo governo di destra-centro. Sono invece voci stabilmente consonanti con il Quirinale di Sergio Mattarella.
L’apprezzamento – alla vigilia del “decreto Ucraina” approvato ieri sera dal Consiglio dei ministri – va quindi letto con riguardo a una sorta di “gioco di squadra” fra premier e presidente: una trama che sta emergendo in forme forse non imprevedibili, ma tutt’altro che scontate un mese fa.
Se le grandi manovre della politica interna risultano le più illuminate dai fari dei media nazionali (a cominciare dal “rapprochement” fra Meloni e terzo polo), merita certamente una sottolineatura anche la doppia sponda geopolitica sulla quale Mattarella e Meloni paiono camminare nella stessa direzione: quella degli sviluppi sul teatro di guerra ucraino, e nondimeno quella della difficile ricomposizione degli equilibri all’interno della Ue.
Il primo “decreto armi” del governo Meloni ha visto la luce nelle stesse ore in cui il presidente francese Emmanuel Macron ha assunto una doppia iniziativa: una protesta contro gli Usa di Joe Biden (che sussidierebbero le loro imprese per profittare della crisi ucraina che la Ue sta pesantemente subendo); ma soprattutto il nuovo tentativo di riaprire – dall’Europa – il tavolo negoziale fra Mosca e Kiev per de-escalare il conflitto prima dell’inverno. Una scommessa con apparenti chance di riuscita, se è vero che un super-summit fra Biden e Macron sarebbe già in agenda per il 13 dicembre a Parigi.
Si è trattato comunque di una sortita impegnativa per il “semipresidenziale” Macron: il quale, a differenza della premier “parlamentare” Meloni, non ha una maggioranza all’Assemblea nazionale e deve quindi uscire allo scoperto sullo scacchiere internazionale per legittimare una leadership debole all’interno.
È stato così, del resto, anche in occasione dell’incidente Ocean Viking: enfatizzato all’eccesso dai media italiani e francesi, ma in realtà ricomposto più in fretta del prevedibile fra Palazzo Chigi (e il Quirinale) e l’Eliseo, entrambi alle prese più con turbolenze politiche domestiche che con incolmabili divergenze bilaterali sulla crisi migratoria.
È stato in quel frangente che il tandem di pura “governance” istituzionale fra Mattarella e Meloni ha cominciato ad operare, in parte lungo una traccia profonda di continuità con l’esecutivo Draghi. La lealtà italiana verso gli Usa è stata ribadita dalla nuova premier – e riconosciuta dal presidente americano – all’ultimo G20 di Bali (divenuto anche G7 d’emergenza per il missile-Ufo sconfinato in Polonia). Il decreto-armi conferma ora che l’Italia è a fianco dell’Ucraina, in totale sintonia con la Nato, nonché in perfetta aderenza con gli impegni elettorali di Meloni.
Il passaggio parlamentare ha d’altronde consentito alla premier di aggiungere il perseguimento di altri obiettivi: non solo “ricompattare la maggioranza” in un passaggio che fin dalla nascita del governo era stato indicato come primo test insidioso; ma farlo ribadendo la linea netta di politica estera che è risultata decisiva per il successo elettorale di FdI e della sua leader.
La “deviazione” presso le Camere (certamente frutto della “moral suasion” del Quirinale) ha peraltro guadagnato a Meloni un ulteriore “valore aggiunto” politico: non solo l’appoggio bipartisan di Pd e terzo polo (non più a Draghi, ma a Meloni), ma anche l’emergere netto dell’opposizione M5s. Sul versante esterno ha infatti segnalato che anche in Italia (come in Francia e Germania) l’opinione pubblica non è compatta sulla “guerra a oltranza” contro Putin. È la premessa dell’iniziativa di Macron (Biden): che – se avrà sviluppi – Palazzo Chigi difficilmente avrà adesso esitazioni o problemi a seguire in chiave “geopolitica” (e “istituzionale” all’interno). Non da ultimo: il “no antagonista” ai nuovi aiuti militari all’Ucraina è giunto da “Giuseppi” Conte: il premier del ribaltone italiano del 2019, incoronato da Donald Trump, poi battuto da Biden.
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