Arnaldo Forlani ha attraversato tutta la storia della Prima Repubblica e della Democrazia Cristiana, incarnando più di tanti altri la quintessenza del partito scudocrociato. E’ sempre stato, naturalmente, al centro del centro: inventore di formule buone per governare Balena Bianca e Paese, pronto alle scalate ma pure a defilarsi o a dimettersi, perennemente in navigazione sfidando le onde e sempre riemergendo dalle immancabili burrasche.



Arnaldo Forlani, classe 1925, ha chiuso con la politica nel ‘94, scalzato prima dalla mancata elezione quirinalizia e poi da Tangentopoli, potendo vantare (ma il verbo non gli s’addice) nove legislature parlamentari, due periodi da segretario Dc, diversi mandati ministeriali e un incarico da Capo del governo. Sembrava esistere da sempre e destinato a durare in eterno.



E’ stato leader senza la preoccupazione di dover apparire. Un po’ per carattere, soprattutto per la situazione. Non c’erano media e social, contavano tessere e congressi. E lui aveva la capacità di destreggiarsi tra le correnti, riuscendo a mantenersi sempre sulla cresta dell’onda. Lo definirono “Il pompiere” per la sua attitudine, assolutamente democristiana, a orchestrare alleanze anche impensabili. Cuciva e mediava e se si presentava l’occasione eccolo pronto a salire sul ponte di comando. Disse una volta Antonio Gava a Bruno Vespa: “

E’ difficile capire quando Arnaldo vuole una cosa e quando no”. Era il ’92 e candidati alla Presidenza della Repubblica erano Forlani e Andreotti, una sfida tra amici (nel senso democristiano del termine). “Non si capiva”. Non che questa fosse una prerogativa di Forlani, ma il nostro in quest’arte sicuramente eccelleva.



Gianfranco Piazzesi, riprendendo un personaggio bacchelliano, lo definì “Coniglio mannaro”: dalle apparenze innocue, un misto di morbidezza e dolcezza, pronto però a mordere e a conquistare un traguardo. Le sue svolte sono storiche. Cresciuto nell’alveo fanfaniano, fu il regista del patto di San Ginesio che nel ‘69 diede il potere ai quarantenni suscitando l’illusione che la prima generazione democristiana (Fanfani compreso) fosse finita in soffitta. Divenne segretario per un quadriennio in cui successe di tutto: legge sul divorzio, scioperi, inizio degli anni di piombo. Preoccupato per la tenuta della Dc, nell’autunno ’70 organizzò un grande convegno su Romolo Murri. Fu il tentativo di sottolineare l’urgenza della laicità in un partito ancora condizionato dall’integralismo fanfaniano.

Qualcuno dirà che sono problemi di un tempo ormai lontano. Ma Forlani aveva uno sguardo proteso al futuro e probabilmente già allora stava prefigurando altre novità che in nuce anticipavano quella del 1988, quando avrebbe fondato la corrente di Azione Popolare (il “Grande Centro” contrapposto alla sinistra), probabilmente l’embrione del più recente polo di centrodestra. Nel 1973, con il patto di Palazzo Giustiniani, si materializzò la disillusione dei quarantenni e Fanfani tornò in auge, spalleggiato da Moro. Per Forlani e De Mita iniziò un periodo di “quaresima” (cit. fanfaniana) culminato nella sconfitta congressuale del ’76 (Zaccagnini segretario col 51,5 % contro Forlani al 48,5 %).

La fine della solidarietà nazionale fu certificata nel 1980 dal cosiddetto “preambolo” (altro termine riesumato dal vocabolario Dc) che sanciva l’alleanza tra le correnti e portò Forlani alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. E anche stavolta la Storia non fu tenera col governo. In pochi mesi si susseguirono il terremoto in Irpinia, l’attentato al Papa, il referendum sull’aborto e la scoperta degli elenchi della loggia massonica P2, che costrinse il premier alle dimissioni. Gli anni ’80 videro contrapposti gli antichi gemelli di San Ginesio: De Mita segretario e premier e Forlani, che sarebbe tornato segretario tra il 1989 e il 1992, a coltivare l’asse con Craxi culminato nel “CAF” (l’accordo Craxi, Andreotti, Forlani detto anche “patto del camper” dal luogo in cui venne siglato).

Le elezioni alla Presidenza della Repubblica frantumarono anche il legame tra Andreotti e Forlani ma ormai si era all’inizio della fine, propiziata dai magistrati del pool di Mani pulite. Di Pietro fu particolarmente aggressivo con l’ex segretario Dc, che viene ricordato con la bava alla bocca a ripetere troppi “non ricordo” e “non so” di fronte all’incalzare delle domande del PM.

In effetti Forlani non si occupava dei conti del partito e fu condannato a due anni e quattro mesi sulla base dell’assurdo principio che non poteva non sapere. Superò poi con formula piena gli altri processi in cui venne coinvolto, ma nel frattempo aveva già deciso di dare l’addio alle istituzioni e la sua uscita di scena contribuì a caratterizzare un cambiamento d’epoca. Oggi viviamo in tempi in cui la politica o non interessa o sembra attrarre troppi esibizionisti, millantatori e pifferai magici. Figure come quella di Forlani, più attente alla sostanza che all’apparenza, appaiono superate e vengono presto dimenticate.