Per ricordare chi è stato Arnaldo Forlani, scomparso a 97 anni nella sua casa di Roma, per capire meglio che cosa ha rappresentato e che cosa avrebbe potuto ancora rappresentare al momento della sua prematura uscita di scena nel 1993, vittima della furia cieca e distruttiva di Mani pulite, può aiutare andarlo a risentire nel suo accorato e ispirato intervento al Meeting di Rimini dell’anno precedente.
Il tema era “Il popolo e i partiti”, banalizzando si ricorda quel giorno di agosto del 1992 come quello del tentativo (mancato) di far nascere una nuova corrente nella Dc che era già, consapevolmente o meno, ai titoli di coda. La proposta (avanzata da Vittorio Sbardella con il supporto di Roberto Formigoni) era in realtà quella di dar vita a una Alleanza popolare per il cambiamento (Alpoca), molto di meno di una corrente in termini di organigramma, molto di più in termini programmatici e di prospettiva politica, sebbene la cosa si sia poi rivelata mera utopia, visti i tempi ai quali si stava andando incontro.
A riascoltarlo c’è tutta la storia di Forlani, tutto il suo disinteresse per il concreto esercizio del potere, tutta la sua idiosincrasia per la politica concepita come spargimento di sangue fra fazioni contrapposte e tutta la sua generosità che sapeva invece mettere in campo cercando soluzioni che prescindevano da personali ambizioni.
Forlani era in quel momento il segretario della Dc, al suo fianco c’era il presidente del partito, Ciriaco De Mita, che era stato il suo predecessore a Piazza del Gesù, teoricamente il suo rivale interno, mentre i due, in realtà, per chi conosce le cose, erano legati da un rapporto di stima antico e consolidato: “Oh, di politica non aggiungo niente, perché son d’accordo con De Mita, eh… Noi qui fra l’altro – ricordò a Rimini – siamo a pochi chilometri da San Ginesio, la nostra è una storia lunga e noi per questo dato di amicizia e di reciproca capacità di ascolto abbiamo finito per andare d’accordo anche quando non eravamo d’accordo”.
Il riferimento di Forlani, pochi nella platea riminese dovettero coglierlo anche per ragioni anagrafiche, era al convegno che si tenne nel settembre del 1969 a san Ginesio, nelle sue Marche, che portò a un patto generazionale fra quarantenni sancito da Forlani, che era stato stretto collaboratore di Amintore Fanfani, e De Mita, espressione invece della sinistra di Base da poco affrancatosi da Fiorentino Sullo. I “gemelli di San Ginesio”, come furono battezzati divennero, nel giro di poche settimane, uno segretario della Dc e l’altro vice, e terranno sempre fede, per un quarto di secolo, a questo patto, non umiliando mai l’avversario, nelle alterne vicende interne, e privilegiando sempre l’unità del partito come un bene prezioso, per i cattolici e per il Paese.
De Mita, dimostrando una certa fiducia verso una possibile intesa fra partiti popolari in difesa della politica sotto attacco di magistrati e “poteri forti”, quel giorno tentò di spiegare tutti i rischi di una politica che volesse andare invece al superamento dei partiti e del sistema proporzionale che li aveva tenuti in vita, ricordando tutti i disastri originati, 70 anni prima, dall’illusione di fronteggiare la crisi puntando tutto sul rafforzamento dell’esecutivo, con il maggioritario. Ma colpisce, nel risentire oggi entrambi, la consapevolezza comune delle difficoltà e l’appello accorato a uscirne insieme, che purtroppo sull’onda degli eventi e del “si salvi chi può” scatenato dalle inchieste rimarrà inascoltato.
Forlani annuì, difendendo il rinnovamento in corso nella Dc e sottolineando la necessità di fronteggiare la situazione con una riforma istituzionale che mettesse insieme la rappresentanza dei partiti e il vincolo di coalizione. E difese la generosità e il senso di responsabilità della sua Dc nel rinunciare, come era accaduto nella primavera del 1992, sia a indicare il presidente della Repubblica sia il presidente del Consiglio, denunciando però la chiusura del partito comunista a trovare insieme una soluzione che andava cercata nella Commissione Bicamerale: “Per parte nostra abbiamo fatto tutto quanto era umanamente possibile perché anche in Italia si realizzino condizioni di normale dialettica politica”, aggiunse Forlani.
Spettacolare il distacco che mostrò rispetto a quella che poteva legittimamente rappresentare una personale aspirazione, l’elezione a presidente della Repubblica, sfuggita per 29 voti: “Personalmente ho corso qualche rischio, essendo stato costretto. I gruppi parlamentari hanno preteso che ci fosse la candidatura democratico cristiana e ai più è parso che il massimo di convergenza potesse realizzarsi sul nome del segretario. Per poco non vengo eletto – scherzò – ma sarebbe stata per me la sciagura più grossa perché ho sempre considerato questa carica la cosa più triste e desolata che possa capitare a un uomo politico che voglia partecipare alla battaglia e al confronto politico”. Buggerato dai suoi nel segreto dell’urna e li ringraziava pure. Questo era Forlani, al quale – ex centrocampista della Vis Pesaro in serie C – evidentemente non è mai venuta meno la sportività e la giocosità, anche nell’agone della più complicata vicenda politica.
Presidente del Consiglio era stato eletto il socialista Giuliano Amato, al Quirinale era salito Oscar Luigi Scalfaro dopo la sua rinuncia e dopo il terribile attentato di Capaci che diede la sveglia ai partiti. E chiese alla platea riminese di tributare un applauso a chi era riuscito nell’incarico che a lui era stato precluso “trovando anche il consenso convinto e diffuso dell’opinione pubblica del nostro Paese”. Pronunciò più di tutte, almeno una ventina di volte, le parole “solidarietà” e “amicizia”, vere stelle polari del suo tratto umano e della sua azione politica.
Don Luigi Giussani in quel periodo fu fra i pochi ad avvertire anche noi giornalisti del rischio di aderire a un pensiero unico che prendendo di mira gli eccessi e gli errori della politica rischiava di buttare via con l’acqua sporca anche il “bambino” del perseguimento del bene comune di cui la politica, con tutti i suoi limiti, era ed è intestataria. E Forlani quel giorno lanciò un appello alle “energie sociali culturali e produttive del nostro Paese” a “non cadere nel trasformismo inseguendo istinti non razionali e perversi. A questa crisi – concluse così il suo intervento, Forlani, a Rimini, fra gli applausi – non si farà fronte se non mantenendo forte, unitaria, decisa la solidarietà e la coesione all’interno del nostro mondo, che vuole continuare a ispirarsi a principi permanentemente validi”, disse in riferimento alla storia democristiana e alla dottrina sociale cristiana.
Ma quell’appello all’unità e al rinnovamento della politica non andò a buon fine. Era il 28 agosto del 1992. Di lì a pochi mesi quel politico che sembrava inossidabile, che era stato due volte segretario della Dc e una volta presidente del Consiglio, l’uomo “preambolo” anticomunista, l’uomo del Caf (Craxi-Andretti-Forlani), l’asse frutto del patto del camper sancito con Bettino Craxi in un camper, appunto, al congresso dell’Ansaldo del 1989, il “coniglio mannaro” nella celebre definizione del politologo Gianfranco Piazzesi, a sottolineare la sua capacità di mettere a segno colpi micidiali nonostante la sua avversione per la politica guerreggiata, dovette ammainare bandiera sotto i colpi del pm Antonio di Pietro e del pool milanese. Dopo la gogna mediatica davanti alle telecamere, arrivò per lui la condanna ai servizi sociali con la Caritas, vissuta come una ineluttabile ingiustizia alla quale rassegnarsi. Forlani e la Dc uscirono di scena e in molti sono ancora convinti che non fu un bene per il nostro Paese.
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