Non è un caso se il ministro Crosetto ha dichiarato due giorni fa che la linea del governo è “l’approfondimento della sentenza di arresto” emessa dalla Corte penale internazionale (CPI). Il problema-Netanyahu è politicamente scottante, ma anche intricato, ed è molto probabile che se ne sia parlato ieri sera tra Meloni, Salvini, Tajani, Lupi e Giorgetti, anche se il vertice di maggioranza era sulla legge di bilancio. Il governo, infatti, dovrà decidere cosa fare.
“La circostanza che potrebbe essere invocata in favore di Netanyahu – spiega al Sussidiario Pasquale De Sena, ordinario di diritto internazionale nell’Università di Palermo e già presidente della Società italiana di diritto internazionale – per evitare l’arresto in Italia, come in altri Stati parti dello Statuto della Corte, è l’immunità e inviolabilità personale dei capi di Stato e di governo in carica, disposta da una norma del diritto internazionale generale. Tale norma è superata nei rapporti fra gli Stati parti dello Statuto della CPI, ma vale nei confronti di Israele, che non ne è parte”.
Professore, secondo l’art. 10 della Costituzione “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Dunque fintanto che Netanyahu è premier, saremmo tenuti a non arrestarlo?
L’immunità coprirebbe Netanyahu e obbligherebbe l’Italia a non intervenire coercitivamente per dare esecuzione al mandato di arresto, in base all’art. 10 della Costituzione. Quest’ultimo provvede a dare ingresso nel nostro ordinamento alle norme internazionali a carattere generale, le quali assumono perciò rango costituzionale. Dalla norma sull’immunità e l’inviolabilità dei capi di governo deriva dunque un obbligo costituzionale, a carico degli organi statali italiani, di procedere nel senso di cui sopra.
Però lei ci ha appena ricordato che la norma dell’inviolabilità non è superata nel caso di Israele. Ci sarebbe dunque un conflitto fra norme e fra gli obblighi che esse prevedono?
Questa del conflitto è una possibile interpretazione. Dico “possibile” interpretazione, perché non c’è accordo sul fatto che l’obbligo di arresto e consegna, previsto dallo Statuto della Corte, si estenda anche a organi di Stati terzi. Ammettendo però che sia così, l’obbligo di riconoscere l’inviolabilità risulterebbe in contrasto con l’obbligo di dare esecuzione al mandato di arresto, obbligo che scaturisce dalla legge 237/2012, con la quale l’Italia ha adeguato il suo ordinamento alle previsioni dello Statuto della Corte. Tale obbligo è di per sé sfornito di rango costituzionale, mentre l’obbligo di riconoscere l’inviolabilità di Netanyahu sarebbe destinato a prevalere, essendo invece dotato di rango costituzionale.
Ciò vuol dire che se non si aderisse a tale interpretazione, a più forte ragione varrebbe l’inviolabilità di Netanyahu?
No, le cose non stanno così. L’esecuzione del mandato di arresto di Netanyahu, a dispetto della sua inviolabilità, potrebbe comunque configurarsi come una contromisura – se vuole, una rappresaglia – lecita, nei confronti di Israele, perché consentita dal diritto internazionale.
E a che titolo?
A mo’ di reazione rispetto a violazioni del diritto umanitario e dei diritti umani, su cui pende pure un processo dinanzi alla Corte internazionale di giustizia (ICJ). L’adozione di tale contromisura, conforme al diritto internazionale generale, sarebbe anche costituzionalmente lecita. Ciò perché essa si risolverebbe nell’esercizio di una facoltà prevista dal diritto internazionale, al cui esercizio gli organi statali sarebbero legittimati proprio dal menzionato art. 10, tramite il quale l’ordinamento italiano si conforma, per l’appunto, al diritto internazionale generale.
Questo sul piano costituzionale italiano. Ma su quello internazionale?
Sul piano internazionale, se anche le due norme vengono considerate in conflitto, non vi sarebbe fra di loro un rapporto gerarchico, tale da far prevalere quella sull’inviolabilità dei capi di governo. Ciò perché quest’ultima, pur essendo una norma di diritto internazionale generale, non è una norma cogente, e potrebbe quindi essere derogata pure da una norma pattizia: come quella che concerne l’arresto anche dei capi di governo da parte degli Stati che hanno ratificato lo Statuto della Corte.
Dunque, i governi degli Stati parti dello Statuto della CPI – come l’Italia – si trovano dinanzi a un vero e proprio dilemma. Come potrebbero risolverlo?
Due sono le ipotesi che si prospettano. La prima è quella dell’arresto di Netanyahu. In questo caso, lo Stato darebbe un’interpretazione ampia, come ho detto, dello Statuto della CPI, ritenendo che l’obbligo di arresto vale anche nei confronti di organi di vertice di uno Stato terzo. Esso si troverebbe dunque a violare la norma sull’immunità nei confronti di Israele, e tale violazione implicherebbe, in principio, la sua responsabilità nei confronti di Israele, che è appunto, lo ripeto, Stato terzo rispetto allo Statuto della Corte, non avendolo ratificato.
Una simile azione sarebbe illecita? O ci sarebbe una qualche causa che esclude la responsabilità verso lo Stato terzo, in questo caso Israele?
Certo che ci sarebbe. Essa troverebbe una causa di giustificazione ineccepibile, se, come ho già detto sopra, si considerasse che l’arresto costituisce una contromisura internazionalmente lecita nei confronti di Israele, a fronte delle gravi violazioni del diritto umanitario e dei diritti umani che esso sta compiendo, su cui pendono ben due giudizi di tribunali internazionali, quali la Corte penale internazionale (CPI) e la Corte internazionale di giustizia (ICJ).
E quale sarebbe la seconda ipotesi?
È quella in cui non si procedesse all’arresto: in questo secondo caso, lo Stato rispetterebbe la norma sull’immunità nei confronti di Israele, ma adotterebbe un comportamento che potrebbe essere considerato illecito dagli Stati parti della Corte medesima, se questi ritenessero che l’obbligo di arresto vale anche per organi di Stati terzi.
Quindi?
Se si accetta la tesi del conflitto fra due norme internazionali, questo andrebbe risolto, evidentemente, con una scelta della norma giuridica da osservare, con tutto ciò che ne consegue in termini di responsabilità giuridica per la violazione dell’altra.
Se non la si accetta?
Si tratterebbe comunque di una scelta, etico-politica drammatica, fra la fedeltà a un’istituzione multilaterale globale – la CPI –, dinanzi a violazioni dei diritti umani da essa perseguibili e vietate dal suo Statuto, e quella nei confronti di un alleato storico – Israele – di gran parte degli Stati occidentali che hanno ratificato lo Statuto della Corte.
Un alleato che ha il diritto di difendersi.
Sì, ma su cui grava ben più che il sospetto di aver commesso gravissime violazioni del diritto internazionale. Una scelta in suo favore implicherebbe, in tal caso, il sorvolare su tali gravissime violazioni procedendo all’arresto, magari, dei soli esponenti di Hamas, colpiti da analogo mandato, ed impedendo, in radice, qualsiasi giudizio sulle responsabilità dei vertici politico-militari israeliani, dal momento che la Corte non può giudicare in contumacia. Il colpo inferto alla CPI quale istituzione multilaterale sarebbe evidentemente tremendo.
Secondo lei cosa farà l’Italia?
Se stiamo a quanto è sin qui emerso, mi pare ci sia qualche ragione per ritenere che l’Italia procederebbe in senso conforme alla seconda ipotesi. Basti pensare alle parole della presidente del Consiglio sulla non equiparabilità tra Israele e Hamas, e a quelle del ministro degli Esteri, il quale ha sottolineato che il mandato d’arresto non contribuisce alla pace.
(Federico Ferraù)
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