L’arte che entra nell’ospitalità, e l’ospitalità che diventa arte. Abbiamo già riportato, su questo giornale, dell’originale esperienza scaturita al TH Carpegna Palace di Roma, una simbiosi tra la direzione tracciata dall’hotel e un’artista ben nota nel panorama italiano e internazionale, la bolognese Antonia Ciampi, docente in varie accademie nazionali. Un’iniziativa che sta suscitando non poco interesse, in due mondi, quello dell’hotellerie italiana e quello dell’arte contemporanea, che non sempre hanno trovato connubi equilibrati.
Ciampi, da dove nasce e in cosa consiste la sua collaborazione con il TH Carpegna Palace?
Avendo già avuto in passato collaborazioni con prestigiosi hotel, ho scoperto la possibilità di una comunicazione artistica allargata, rispetto ai circuiti deputatati all’arte, che rimaneva per me un osservatorio privilegiato dove poter testare il mio lavoro. Grazie a una conoscenza comune, ho ricevuto l’invito a incontrare il direttore Nicola Dettorino e visitare gli spazi del TH Carpegna Palace, ed è scattata immediatamente un’alchimia: mi sono subito sentita a mio agio, grazie a uno straordinario feeling e una forte intesa con il direttore e con tutto lo staff dell’hotel, che mi ha fatto sentire a casa. Ho sentito un’energia e una passione, nell’intenzione di valorizzare l’hotel, che si rispecchiano con l’amore e la passione con la quale vivo la mia esperienza artistica.
Con quale obiettivo?
Il mio obiettivo era ritrovare uno spazio vissuto quotidianamente dove invitare un pubblico eterogeneo, e non necessariamente amante o frequentatore dell’arte, a incontrare il linguaggio dell’arte, a fruirne in libertà, fino a recepirlo come familiare. L’arte ha abitato per più di otto secoli i luoghi vissuti dalla maggior parte dell’umanità, come le chiese, i palazzi, le piazze, per poi essere relegata in gran parte solo nei luoghi deputati, e limitata nella sua comunicazione. La bellezza, l’emozione e il pensiero che risiedono nell’arte, anche contemporanea, sono patrimonio universale, e devono essere accessibili e fruibili da chiunque, per instaurare nuovamente un dialogo tra l’essere umano e i linguaggi artistici, come già accade con la musica, la danza, la letteratura, il teatro e il cinema.
Che filosofia muove la sua presenza quale resident artist?
Insieme a Dettorino stiamo creando, da un’idea, un ruolo che è in via di definizione, spinti dalla comune filosofia e passione che ci coinvolge nella relazione con il prossimo. Cardine primario è l’Etica, quale valore imprescindibile con cui agire per relazionare l’arte contemporanea all’hotel, e creare, all’interno del suo stile e del suo design, delle note emozionali, estetiche e armoniche, come su uno spartito musicale. L’artista in residenza studia lo spazio, e rispettandone le caratteristiche, inserisce le opere con l’obiettivo di valorizzare e sottolineare la bellezza e l’energia che già sono in esso contenute. Un dialogo, fluido e costante, come si è già creato tra di noi, che si modifica nelle esigenze comuni, creando un cortocircuito tra l’arte e lo spazio abitato del TH Carpegna Palace, in una simbiosi che chi vive lo spazio, internamente ed esternamente, recepisca come naturale e creativo, mantenendo un’attenta selezione nelle opere e le conseguenti collocazioni negli spazi dell’hotel.
E il suo progetto Art Take Away?
Nasce da una riflessione di qualche anno fa, osservando come il cibo, e la sua cultura, abbiano di fatto assunto un’attenzione comunicativa e mediatica potentissima, che ha anche modificato il modo di vivere lo spazio abitativo, dando alla cucina un protagonismo nel mondo dell’interior design. Inoltre all’origine del progetto c’è una semplice osservazione: il mondo del take away sta al consumo di cibo come la libertà della telefonia mobile sta ai vincoli di quello fisso. Una rivoluzione che ha cambiato in un tempo relativamente breve i comportamenti di milioni e milioni di persone, e poiché l’arte è da sempre cibo per l’anima, il nutrimento ha bisogno ora di ritrovare un dialogo semplice e diretto tra artista e committente. Quindi creare piccole opere “asportabili”, utilizzando spesso oggetti dismessi della cucina, recuperati e riportati a una dignità storica ed estetica, e con frasi di famosi storici della cucina, come l’Artusi, o chef contemporanei come Silverio Cineri, che abbiano un prezzo accessibile quanto una torta o una cena da asporto. E che però, a differenza del cibo, possano nutrire anima e cuore in forma permanente, nel luogo in cui si vive, si abita e si lavora. È un progetto che si è strutturato con un brand, “Art Take Away, Opere di gusto fatte ad arte”, e un packaging realmente da cibo da asporto, elegante e immediato, accessibile per chiunque. Una diffusione del messaggio artistico che può entrare in qualunque ambiente abitabile e domestico.
Ritiene che anche l’arte, come la scienza, non sia solo ricerca, ma debba in qualche misura essere “utile”?
La mia personale filosofia artistica ha sempre utilizzato la ricerca come strumento per individuare una comunicazione universale. Non ho mai creduto nell’arte elitaria, e da quando uscii nel 1990 con un diploma in pittura dall’Accademia di Belle Arti di Bologna, grazie al mio maestro e mentore Concetto Pozzati, ho sentito l’esigenza di ritornare alla comunicazione universale dell’arte, ed al suo compito di suscitare emozione, nutrire l’anima, muovere curiosità, creare dubbi. Grandi e piccoli luoghi emozionali, dove chiunque ne fruisca possa rispecchiare una parte di se stesso all’interno, o sorprendersi, per poi riflettere, o semplicemente goderne. È una sfida continua, difficilissima, ma per me unico obbiettivo finale da raggiungere. L’arte è un atto d’amore profondo, perché per emozionare devi donare una parte di te stesso e racchiuderla nell’opera, se vuoi che sia tale, altrimenti è solo un magnifico e virtuosistico esercizio estetico. Scambiare emozioni, educare alla bellezza, questo per me è, da sempre, il compito dell’arte.
Quanto ritiene vicina l’arte contemporanea al design di interni e oggetti?
Nasco come pittrice, e in particolare quale creatrice di una tecnica innovativa di pittura su vetro, e con un diploma di arredatrice, prima ancora di entrare in Accademia di Belle Arti. Quindi ho sempre considerato l’arte, come la storia ci insegna, quale altissima forma di vestizione dello spazio architettonico, sia creato e costruito dall’uomo, sia dalla natura. Per molti secoli gli artisti hanno creato opere sotto precise committenze, per abbellire e vestire spazi architettonici e naturali civili e religiosi, ma sono stati anche veicoli di comunicazione universale rivolti a una massa per molti secoli analfabeta. Questa doppia valenza delle opere d’arte, estetica e significante, quindi portatrice di contenuto oltre che di bellezza, continua ad attraversare secoli e società più diverse, mantenendo un rapporto preciso e imprescindibile con lo spazio con cui si vengono a rapportare, e nel mio personale eclettismo linguistico della mia ricerca artistica, credo fermamente nell’opera che incontra lo spazio, ne sottolinea potenzialità e bellezza, diventando un elemento non solo estetico, o di design, ma anche funzionale. Grandi artisti hanno creato oggetti d’arte che hanno anche una funzione d’uso, per applicare la propria arte e creatività anche all’elemento d’arredo, e oggi, come è stato evidente all’inizio del secolo scorso, e celebrato nella Bauhaus, l’Art Design sta ritrovando il collegamento tra questi due mondi, creando opere d’arte che sono pezzi unici fatti a mano, e hanno anche un uso “arredativo”, a differenza del Design, che rimane, anche se di grande levatura creativa e progettuale, un prodotto industriale in serie. Sono convinta che entrambi contribuiscano a educare alla bellezza, e a produrre spazi abitativi e lavorativi in cui sia naturale, e molto piacevole vivere, come nella bellezza degli spazi della natura, in cui amiamo stare.
(Alberto Beggiolini)
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