“Occorre ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti, un’amicizia guastata tra entrambe le parti, sia col ricorrere ad un’arte staccata dalla vita, e ancor più dall’esperienza religiosa e resasi quasi incomprensibile; sia con il pretendere l’assuefazione a cliché e modelli ‘di pochi pregi e di poca spesa’”. Con queste parole, il 7 maggio del 1964, papa Paolo VI si rivolse agli artisti nella Cappella Sistina.



Il cardinale Montini aveva già espresso simili preoccupazioni quando, nominato alla cattedra vescovile di Milano nel 1954, iniziò a dare un forte impulso alla nascita di chiese nei nuovi quartieri periferici di Milano.

Nella periferia sud-est di Milano, Enrico Mattei, che nel 1953 aveva fondato l’ENI, iniziò a costruire il quartiere che poi sarà chiamato Metanopoli (frazione del Comune di San Donato Milanese) a servizio degli operai e delle loro famiglie e al suo centro decise di costruire una chiesa.



La chiesa, dedicata a Santa Barbara Vergine e Martire, venne consacrata il 3 dicembre 1955 dall’arcivescovo Montini e fu completata prima delle abitazioni perché doveva essere un punto di riferimento non solo religioso ma anche culturale, sociale e civico di una comunità nuova che aveva bisogno di punti di riferimento.

L’architetto Mario Bacciocchi, progettista della chiesa, estimatore dell’arte sacra contemporanea, incoraggiò Mattei a dotare la chiesa di opere, e Mattei, trovando l’appoggio entusiastico dello stesso arcivescovo Montini, promosse un programma di decorazione della chiesa con opere di arte sacra affidate ad artisti già affermati nel panorama nazionale che lui contattò personalmente.



Cosi vengono coinvolti Pericle Fazzini, Andrea e Pietro Cascella, Giorgio e Arnaldo Pomodoro, Fiorenzo Tomea, Francesco Boccardo, Carmelo Cappello, Aldo Caron, Bruno Cassinari, Franco Gentilini, Marco Melzi, Augusto Perez. La Chiesa di Santa Barbara a Metanopoli può essere considerata quindi un museo di arte sacra contemporanea.

In modo particolare Fiorenzo Tomea (1910-1960) disegna il grande mosaico della parete absidale, realizzato materialmente da Pietro Cantù tra il 1958 e il 1960. Il mosaico, che rappresenta la Crocifissione di Cristo tra i due ladroni, ha una superficie di 800 metri quadrati ed è tra i più grandi d’Europa realizzato in tempi moderni. La potenza espressiva di quest’opera ha pochi paragoni nell’arte del secolo passato.

Tomea propone un paesaggio desertico che accentua la solitudine di Cristo, mentre i colori bellissimi del cielo alludono al calare delle tenebre. Cristo è appeso morto in croce, con i contorni sottolineati da una spessa linea nera e i segni visibili delle ferite, dalle quali cola abbondante sangue. È l’attimo della morte, successivo all’invocazione “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. Le colline sullo sfondo, dal colore innaturale tanto da apparire come un paesaggio lunare, contribuiscono a quel sentimento di angoscia e solitudine che è la cifra di tutta l’opera.

Ma ecco che accade qualcosa che cambia completamente i connotati dell’opera: improvvisamente, come pura sorpresa, dall’alto penetra la luce del sole, che entra dal vetro della copertura e invade tutto lo spazio del presbiterio, illuminando sia il mosaico che l’altare. Ecco la vera cifra dell’opera di Tomea, la Croce di Cristo al centro di un misterioso intreccio di tenebre e di luce.

A questo punto ci viene in soccorso una mistica del Novecento, Adrienne von Speyr, che ha riflettuto molto sul tema della morte di Cristo in croce e nel 1949 (pochi anni prima del mosaico di Tomea) confidava queste parole al suo padre confessore Hans Urs Von Balthasar: “L’immagine del Figlio abbandonato ci dice con chiarezza che cosa sono le tenebre: il fossato tra l’uomo peccatore e indifferente e il Padre in cielo non è ora più grande dell’abisso tra Figlio e Padre; e quanto qui il Signore sopporta e vive esemplarmente davanti a noi ci rende d’un solo colpo tutto comprensibile: chi è Dio, chi siamo noi e chi è il Redentore. Tutto diventa in una sola volta reale. (…) Lui stesso è tenebra perfetta e proprio per questo la luce perfetta del mondo” (A. von Speyr, I discorsi polemici, Jaca Book, 1989, pag. 201).

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