Ridurre Fernando Botero a “pittore delle persone grasse” sarebbe riduttivo. Ma soprattutto sarebbe un errore. Il pittore colombiano era sempre stato esplicito: “la realtà è arida, preferisco comunicare la pienezza”. Viene mente in mente un altro grande artista tutt’altro che longilineo, Alfred Hitchcock, quando dichiarava: “Altri girano fette di vita, io giro fette di torta”.
Botero l’aveva spiegato più volte: “Non dipingo donne grasse. Io faccio uomini, animali, paesaggi, frutta con lo scopo di comunicare sensualità alla forma. A me piace comunicare questa pienezza, questa generosità, questa sensualità, perché la realtà è arida”.
La realtà è arida, spesso dolorosa. Nel 1974, in un incidente d’auto in Spagna, Botero perdette il figlio Pedro, detto Pedrito, 4 anni. Si chiuse nel suo studio e cominciò a dipingere una serie di ritratti che ricreassero il viso del figlio. Nello stesso incidente perse l’ultima falange del mignolo sinistro, caratteristica che entrerà in molte sue opere.
Botero non era ossessionato dal grasso, quella che lui chiamava pienezza era volume. “Quello che dipingo sono i volumi. Quando dipingo una natura morta dipingo anche con il volume, se dipingo un animale è volumetrico, anche un paesaggio. Mi interessa il volume, la sensualità della forma. Se dipingo una donna, un uomo, un cane o un cavallo, lo faccio sempre con questa idea del volume, non è che ho un’ossessione per le donne grasse”.
Il volume per lui era la misura di tutte le cose.
Come abbiamo studiato a scuola, il volume è la misura dello spazio occupato da un corpo. Secondo Kant, noi conosciamo il mondo sensibile, concreto, in due modi: attraverso lo spazio e il tempo. L’uno percepisce il mondo esterno e lo fa secondo la distanza (le cose ci sono vicine o lontane e sono tra loro vicine o lontane), l’altro percepisce il mondo interno, interiore, quello dentro di noi, in ordine temporale (i sentimenti si susseguono, come gli stati d’animo).
Botero uniforma, fonde le due forme: lo spazio, il volume, assorbe il tempo, la coscienza. Le figure voluminose, appunto, diventano rappresentazioni spazio-temporali. La sostanza è forma e viceversa.
In un certo senso, l’artista colombiano rovescia l’approccio cubista. Se Picasso & co. fondevano anch’essi nelle loro opere tempo e spazio, dando però la priorità al tempo, Botero assegna il primato al secondo. Se le avanguardie del Novecento rigettavano i principi secolari della simmetria, della prospettiva e dell’equilibrio, Botero si poneva in retroguardia, in posizione di fedeltà alla tradizione. “Dipingere vuol dire bilanciare tutto per trovare un’armonia e una soluzione. Il che spiega, in parte, il favore tra il largo pubblico e lo sfavore in alcuni ambienti critici. “Negli anni 60 a New York c’era la dittatura dell’arte astratta, nessuno voleva toccarmi, come se fossi un lebbroso, perché facevo arte figurativa”.
Botero sosteneva di “non aver mai dipinto nulla di diverso dal mondo come lo conosceva a Medellín”, ma le influenze dichiarate, quelle dei pittori rinascimentali italiani (del prediletto Piero della Francesca “rifece” il celebre Doppio ritratto dei duchi di Urbino, di Leonardo la Gioconda), di Diego Velázquez, di Francisco Goya, della pittura barocca sono evidenti nelle sue opere, che siano dipinti o sculture.
Il “pittore delle persone grasse”, l’artista grottesco, che parodiava e gonfiava i corpi… per alcuni questo è Fernando Botero. Tuttavia basterebbe osservare il ciclo Via Crucis. Passione di Cristo (27 olii e 34 opere su carte, realizzato tra il 2010 e il 2011 e ambientato non in Palestina nell’anno 33 ma nella Colombia della sua infanzia) per ricredersi. Il volume dei corpi, del Cristo e degli altri personaggi, esplode fuori dalla cornice. Lì non c’è nulla di godurioso, carnascialesco, volgare, ma tensione drammatica, dolore, pathos. “Ho voluto rappresentare un uomo oltraggiato e torturato più che una divinità offesa”.
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