Il 20 aprile 1942 William Congdon sottoscriveva un contratto come autista di autoambulanza nell’American Field Service. L’AFS è una struttura di carattere civile inserita nel sistema militare, ma totalmente svincolata dalla gerarchia. «Al posto dell’arte, ora è la filantropia che mi rende uguale agli altri», annotava a quella data il grande artista americano, allora trentenne. Per Congdon si trattava di lasciare l’America e di spostarsi sui fronti della Guerra mondiale.
Prima viene assegnato all’armata britannica in occasione della battaglia di El Alamein. Poi si sposta in Italia, dove segue l’avanzata delle truppe alleate: nel maggio 1944 partecipa alla battaglia finale di Montecassino. Si trattò di esperienze drammatiche che culminarono con la partecipazione all’opera di soccorso nello scenario tragico del campo di Bergen Belsen, liberato nell’aprile 1945. Congdon visse questa sua scelta volontaria anche con lo sguardo dell’artista: disegnò molti volti di soldati, di civili, e infine documentò l’apocalisse del campo di concentramento dov’erano rinchiuse 53mila persone in condizioni spaventose.
È un capitolo della vita dell’artista americano che oggi è stato documentato in una mostra, molto significativa anche per il luogo che la ospita: il Binario 21 della Stazione Centrale di Milano, da dove partivano i treni per Auschwitz stipati di ebrei. La mostra è organizzata congiuntamente dalla Congdon Foundation e dal Memoriale della Shoah del capoluogo lombardo. Questo capitolo della vita dell’artista americano era già stato ricostruito da un libro scritto da Stefano Galli (attualmente assessore alla Cultura in Regione Lombardia), la cui edizione italiana è purtroppo esaurita. Congdon in questi anni sembra mettere volontariamente in secondo piano l’arte per lasciar spazio a qualcosa che avvertiva più importante: l’esperienza umanitaria, vissuta con uno spirito profondamente solidale e antibellicista.
Concepisce il suo impegno come «un operare per contrastare il male», un tentativo «di favorire quei sentimenti di buona volontà e di uguaglianza tra gli uomini, che sono indispensabili perché si possa anche soltanto pronunciare la parola: Pace», scrive nel suo Diario. L’arte è come messa al servizio di questo intento primario: i disegni che si sono salvati e che sono esposti al Binario 21, sono infatti disegni intensi, la cui forza è riposta soprattutto nella loro volontà documentaria, di testimonianza. Congdon, finita la guerra, sente anche l’urgenza di partecipare alla ricostruzione del paese al quale si era sentito subito legato, cioè l’Italia, tanto che da febbraio a dicembre 1946 si fermò in Molise, in provincia di Chieti, per lavorare a fianco della popolazione.
Si può pensare che questa stagione della sua vita sia una sorta di parentesi che poco ha a che vedere con la sua successiva avventura artistica, quando la pittura prenderà decisamente il largo rispetto al disegno. Nei suoi quadri questi soggetti non ricorreranno più e la stessa fisionomia umana ritornerà solo molto di rado e solo per i soggetti sacri. Eppure la percezione è che l’esperienza di quegli anni abbia lasciato un segno fondamentale nel Congdon artista: per lui rappresenterà la scoperta dell’umano nella sua dimensione di dolore e di domanda. È un sentimento così intenso da restare per sempre radicato nel suo cuore e da diventare l’orizzonte pulsante di ogni sua pennellata. Non ci sono figure umane nella sua pittura, ma c’è l’ansia di salvezza che ha sentito sollevarsi come un grido nell’esperienza vissuta vivendo per tutti quegli anni con l’autoambulanza come casa.
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