Relitti, cieli, navi abbandonate, lagune e poi alberi, tre, prima dell’ultimo sospiro, di quel breve, doloroso, respiro. Quasi dovesse tornare al segno che tutto ricompone, come se sentisse di dover toccare fino in fondo la carne delle cose, la loro scrittura come fossero preghiere o icone. Il gesto fragile, tremante che lo accompagna da qualche anno è divenuto un “brulicare d’insetto”, così lo chiama. Si è arreso ai formati più piccoli ed è tornato a sperimentare, a rinnovare il suo corpo a corpo con la materia, con il colore mentre il gesto si è fatto meno controllato, drammatico e più commovente. C’è una soglia estrema, magmatica, sospinta da uno spirito visibile, che si fa visibile come non mai nel giustapporsi delle forme, nell’olio che satura la spatola, i pennelli, nella faticosa e insistente ripetizione che doma lo sguardo, lo accarezza, lo trasforma.



Sentiva l’artista di essere forse giunto a un approdo, o forse era soltanto un’altra partenza?

Qualche anno fa mi capitò di vedere l’intervista che Red Ronnie fece a William Congdon (1912-1998), poco prima che l’artista morisse. Si trattava della più bella intervista che lo stesso Ronnie avesse mai fatto, così aveva detto in più di un’occasione. Da quella sedia a rotelle in cui l’artista americano ormai era costretto da qualche tempo, sembrava levarsi il moto inquieto del mare, il contrappunto di antiche sinfonie attorno a uno sguardo di fuoco. Discutevano degli ultimi quadri in cui protagonista era una nave abbandonata che tornava pressante sulla tela, tra le sue dita, quasi un mantra, una prolungata cantilena. Lui, Congdon, nato la notte dell’affondamento del Titanic, sentiva di farne parte, parte di quella stessa nave. Un legame misterioso, come misterioso il suo tornare a dipingere insistentemente relitti. “[…] se uno si domanda ‘perché una nave abbandonata’, io ho detto che dipingo sempre e soltanto quello che io sono; non quello che vedo, ma quello che io sono. Se ho fatto 14 quadri della nave abbandonata vuole dire che c’è un abbandono della nave in me, io sono la nave abbandonata […]”.



Tornare sulla nave abbandonata, su quei relitti in cerca di un’ultima spiaggia (in senso metaforico ma forse anche reale), sur le motif avrebbe detto un artista come Paul Cézanne e il suo instancabile ricomparire della montagna di Sainte Victorie, come se ne volesse afferrare l’essenza: “Il paesaggio si pensa in me ed io ne sono la coscienza”, affermava infatti. E a Cézanne Congdon guarderà, fino a omaggiarlo in uno dei suoi piccoli dipinti dedicato a una mela, quasi una melagrana dal cuore prezioso su una galassia in eterno moto, meditando sulla “melezza”, la sacralità, delle mele dell’artista francese, di cui coglieva tutto l’afflato religioso. La sacralità era poi in quello stesso abbandono delle sue navi in cui riconosceva di poter lasciar andare quanto era comodo e rappresentava un conforto “[…] l’estrema compagnia – diceva ancora – che accompagna l’abbandono è Cristo. L’estrema compagnia, l’ultima compagnia è Lui; e la pittura è l’espressione e l’immagine di questa estrema compagnia”.



Non stupirà allora che nell’ultimo dipinto, di quel Venerdì Santo del 1998, alcuni giorni prima di morire, si trovino tre semplici alberi: povere cose eppure nobilissime, segno di un Oltre che si fa umile presenza attraverso il balbettio stentato dei segni della pittura. Alberi o trinitarie braccia, come ha scritto Marco Vallora, che si congedano, a loro volta, da lui? Appartengono alla terra, eppure sono già cielo e i colori dello sfondo sembrano quelli di un’alba di primavera in cui il sole (o forse è l’ultima luna?) non è ancora vigoroso ma onora il giorno rinnovato. Hanno una forza estatica questi alberi, solenne, impossibile non avvertirne il richiamo trinitario, impossibile non sentire l’affinità con quella Trinità di Rublëv a cui Congdon stesso aveva guardato poche settimane prima con un’altra opera, ancora tre alberi, dedicata proprio al capolavoro quattrocentesco.

L’artista, mentre dipingeva, aveva però in mente anche la Recherche di Proust e meditava negli ultimi giorni, insieme al filosofo-poeta. Ed è come se tutto questo lo avesse voluto così racchiudere in quel piccolo dipinto, segno, in fondo, del suo essere uomo pienamente religioso che rifletteva sul suo essere pienamente artista, in quei tre gloriosi, umilissimi alberi consegnati allo sguardo di ciascuno sulla soglia del mistero dell’esistenza e dell’infinito.

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