Mettere a tema per il proprio anno di attività le Interruzioni, come ha deciso Prologos, vuol dire riflettere su un’esperienza di portata universale che crea disagio, disorienta e sconcerta, come abbiamo tutti imparato in questi due anni di pandemia. L’interruzione evoca indubbiamente la perdita, di una relazione, di un abito di vita, il venir meno di una continuità e dunque porta con sé una minaccia di vuoto. Ma, al tempo stesso è portatrice di una sfida poiché capace di evocare anche un oltre rispetto all’evento che lacera il continuo, un inaspettato che può assumere le sembianze di una rinascita e di una ripresa.



Ora, in questo orizzonte di riflessione, quale ambito può essere meglio rappresentativo dell’esperienza dell’interruzione di quello dell’arte, attraversata lungo tutto il secolo scorso e ancora in questi primi anni del nuovo millennio da cambiamenti drastici, inversioni di rotta, stravolgimenti tali da sfisionomarla al punto che a volte si fatica a riconoscerla?



Platone ha offerto all’Occidente una potente definizione dell’arte durata nei secoli: l’arte è mimesis physeos, imitazione della realtà sensibile, instaurando così un rapporto profondo tra arte e natura tale però da non farci obliare la differenza, lo scarto che l’arte è capace di creare mimeticamente rispetto alla realtà imitata. Aristotele attribuisce proprio al carattere imitativo dell’arte il piacere che l’arte ci procura: davanti all’opera d’arte ci viene fatto di dire: “è proprio così!”, a proposito della realtà così ben raffigurata, e sperimentiamo in questo modo il piacere del riconoscimento che è peraltro sempre portatore di una nuova conoscenza del reale.



Ma quale mimesis del reale è possibile trovare in un taglio di Lucio Fontana? Forse quello dell’interruzione stessa fatta quadro? Quale può essere il riconoscimento piacevole davanti all’opera The last judjement di Damien Hirst (esposta alla Torre della Fondazione Prada di Milano), un enorme monocromo nero che se guardato da vicino, superando l’odore particolare che emana, si mostra composto da una miriade di mosche morte invischiate in un supporto con della resina? E ancora dove sta la differenza estetica, lo scarto dal reale, dunque la creazione artistica, nell’orinatoio esposto come opera d’arte da Marcel Duchamp?

Heidegger nel suo famoso saggio L’origine dell’opera d’arte considera, per cercare di comprendere l’essenza dell’arte, un olio su tela di Van Gogh del 1886, Un paio di scarpe, dove il soggetto, amato e ripetutamente ritratto dall’artista, è un paio di vecchie scarpe logorate dall’uso. L’essenza dell’arte palesata nel quadro Heidegger la ritrova in un rapporto privilegiato con la verità, piuttosto che con la bellezza tradizionalmente legata all’arte. Il dipinto è capace di far dimenticare la natura di mero oggetto d’uso che è proprio delle scarpe rivelando il rapporto profondo che lega tale oggetto a quell’abitare il mondo – tracciando i percorsi con i passi, misurando le distanze con la fatica del corpo stesso – che è di ogni uomo. Così nel quadro, dice Heidegger, “pervengono al non esser-nascosto l’ente nel suo insieme, il Mondo e la Terra nel loro gioco reciproco”.

Può ancora dirci qualcosa del Mondo e della Terra un’opera pop come Diamond Dust Shoes di Andy Warhol, lavoro artistico che raffigura scarpe all’ultima moda, che ruota intorno alla mercificazione, che si fa fatica – come il barattolo di Campbell e altre opere della pop art warholiana – a distinguere da un manifesto pubblicitario? Proprio per questo suo carattere, Fredric Jameson elegge tale opera di Warhol, contrapponendola a quella di Van Gogh studiata da Heidegger, ad emblema dell’arte in epoca di tardo capitalismo, era del postmoderno, dove tutto è reificato, dove ogni cosa, anche l’opera d’arte, vale solo per il valore di scambio incorporato. In questa immensa fabbrica del mondo in cui ora abitiamo si può ancora pensare che “poeticamente abita l’uomo” come Heidegger asseriva, citando Hölderlin? Infatti, sembra che la produzione artistica si sia integrata nella produzione universale di merci e che nel mondo in cui viviamo non vi sia più propriamente una Terra, una natura fuori dalla produzione infinita delle merci. In questo onnipresente dominio del Mercato, quale nuovo Leviatano, fatica a trovar posto la ragione critica, mentre trionfa piuttosto la “ragione cinica”, come osserva Sloterdjik. Dunque, anche quella funzione critica dell’arte rivendicata spesso dalle avanguardie del Novecento sembra ora interrotta.

 Theodor Adorno attribuiva un valore politico alle avanguardie del Novecento, vedeva una sorta di slancio utopico nel loro scarto creativo nei confronti del reale, in quanto il reale non può, a suo parere, pretendere di essere “giusto” solo perché ha dalla sua la violenza di ciò che semplicemente è. L’ arte dell’avanguardia può aprire – con la differenza estetica rispetto al reale portata all’estremo – verso un possibile, un altrove che è ancora tutto da costruire.

Ma la commistione tra arte, mass media, comunicazione informatizzata degli ultimi anni è divenuta e diviene sempre più fitta e inestricabile e mostra quale sua tendenza una sorta di riduzione costante di quella che abbiamo chiamato differenza, scarto rispetto al reale (ecco che il fruitore medio non distingue l’oggetto comune dall’opera d’arte e finisce per sedersi al museo – come in una famosa commedia all’italiana – sulla sedia opera d’arte scambiata da lui per una sedia comune). Questa interruzione della distanza estetica permette ancora all’arte di esercitare una funzione critica nei confronti della “fabbrica del mondo” o invece disinnesca tale funzione laddove rende sempre più difficile distinguere l’arte da un prodotto qualunque della tecnica?

Tante dunque le interruzioni che l’arte recente ha vissuto: si è interrotto da tempo il suo rapporto privilegiato con la bellezza (vedi le mosche di Hirst prima citate, ma anche le opere dei cubisti e di tante avanguardie di un secolo fa) a favore di un’emersione del brutto, dell’abbietto, del deforme; ma si è anche interrotto il rapporto tra arte e verità così magistralmente indicato da Heidegger e, infine, pare interrompersi anche il rapporto tra l’arte e la critica politica, sociale, ancora così forte ai tempi di un’opera d’avanguardia come Guernica dove, peraltro, era ancora possibile il riconoscimento aristotelico, pur nella creazione poetica cubista, che permetteva al lettore di dire: “la riconosco, questa è la guerra!”.

Qual è oggi l’essenza dell’arte? E, soprattutto, ha ancora un senso questa domanda che era posta da Heidegger?

A riflettere sulle molteplici interruzioni dell’arte e a rispondere ad alcuni degli interrogativi che queste ci pongono saranno venerdì 18 febbraio alle ore 17.30 Paolo Biscottini, storico dell’arte, docente di museologia all’Università Cattolica di Milano, già direttore di Palazzo Reale e del Museo Diocesano, e Renato Boccali, docente di estetica e filosofia dell’arte all’Università Iulm di Milano. Per collegarsi aprire il sito: www.prologos.it

 

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