La visita, fatta subito dopo Natale, alla mostra di Giorgio De Chirico a Bologna (“De Chirico e l’oltre”, Palazzo Pallavicini, dal 13 ottobre al 12 marzo) è stata un’occasione per riflettere sul posto che può avere l’arte nella vita comune d’oggi, al di là dell’occasione festiva di una visita un po’ turistica o, all’opposto, delle considerazioni tecniche sul valore di un’opera fatte dagli specialisti. L’esposizione è perfetta dal punto di vista della fruibilità: tre o quattro salette dove è esposto un numero di dipinti sufficiente a farsi un’idea completa ma non così sovrabbondante (come in certe retrospettive colossal già viste) da ammazzare l’attenzione del visitatore medio quale io sono. Poche didascalie sulla biografia e i periodi oggetto della mostra, in modo che i commenti degli specialisti, spesso fuorvianti, consentano di contestualizzare l’artista ma non distraggano dal lavoro, che l’arte chiede, di implicazione personale del visitatore. Diciamo che chi scrive non ha alcuna simpatia per le audioguide.
Ma il vero valore aggiunto è l’artista stesso. Diciamo che De Chirico è uno di quei pittori passati nella cultura generale, di cui in qualche modo la gran parte di noi conosce l’esistenza, cosa molto rara per un artista italiano pienamente novecentesco come lui (è nato nel 1888 e si è spento nel 1978, magnifico novantenne che ha dipinto fino all’ultimo giorno di vita). Chi non ha almeno intravisto “Le muse inquietanti”, quei manichini che siedono pensosi o, altrove, addirittura si abbracciano o conversano? Molti saprebbero immediatamente associare il suo nome alla “metafisica”, magari sapendo solo vagamente cosa significa. Sono ben noti anche i suoi panorami cittadini, geometrici e deserti, affidati all’onore del disegno, tra i quali campeggia Ferrara, la città a parere dell’artista più metafisica di tutte. Questo significa una cosa sola: che De Chirico è riuscito a passare nell’immaginario collettivo, ad entrare nel campo visivo e di senso persino di chi è lontanissimo dall’attività e addirittura dall’interesse artistico. Nella nostra realtà, dunque, De Chirico ha fatto quello che si augura ogni artista: esiste. E i suoi quadri hanno modificato e indirizzato definitivamente il suo secolo.
La cosa è tanto più strabiliante quanto più si pensa che De Chirico è stato persino osteggiato dall’ambiente artistico a lui contemporaneo. Pare che con Picasso i rapporti non fossero rosei. Dopo aver girovagato a lungo, entrando in contatto con le principali avanguardie artistiche europee, da Parigi in giù, De Chirico se n’è tornato in Italia, snobbato e snobbando i colleghi che lo trovavano, pensa un po’, eccessivamente classico. La mostra a Bologna documenta soprattutto il secondo e il terzo tempo della sua attività: il primo tempo fu appunto quello metafisico, quello dei manichini e dei panorami assoluti; il secondo, definito dai critici, con un certo disprezzo, “barocco”, fu l’epoca del ritorno a un figurativo più chiaro e a citazioni dall’epoca rinascimentale e appunto barocca, con cavalieri, costumi, ambientazioni che ne fanno un profeta del citazionismo post-moderno; la terza fase, infine, ben visibile anch’essa nella mostra bolognese, è quella del ritorno ai temi metafisici, detta per questo “neometafisica”.
De Chirico sembra suggerire, a chi giunge ad ammirare i quadri, di implicarsi nella soluzione del misterioso messaggio che essi sembrano recare, e la mostra è fatta bene perché non aggiunge spiegazione a spiegazione, ma lascia spazio a questa mossa del visitatore. In uno di questi dipinti il solito manichino armato di squadre viene abbracciato da una statua scesa dal piedistallo: si tratta del Figliuol prodigo. È chiaro che vi si fa riferimento al percorso cronologico del pittore: dopo la fase barocca la statua (l’arte) saluta il ritorno dell’artista alla stagione metafisica. Ma quanto interessa in realtà all’osservatore di conoscere le vicende individuali del pittore? Allora la lettura può anche essere un’altra, e incentrarsi ad esempio su quella straordinaria discesa dal piedistallo del padre che abbraccia il ritorno del figlio.
Un altro dipinto, che offre una visione metafisica di New York, stimola questo lavoro di lettura in modo fecondo. In realtà New York spunta solo da una finestra in fondo a una camera lunga, ingombra in primo piano di squadre, casse, strumenti di misurazione geometrica e oggetti che da quella geometria sono stati prodotti. Non so cosa De Chirico volesse dirci con il dipinto, né i curatori ce l’hanno comunicato con didascalie; ma so bene cosa mi dice. La realtà che è nel punto di fuga prospettico è spiegata dalla metafisica, che in De Chirico è sempre rappresentata con una geometria essenziale, prospettica, nuda, da manichino, senza volto. Insomma, la realtà ha oltre di sé un mondo di corrispondenze, di misura, di esattezza a cui potrebbe essere ricondotta metafisicamente. Salvo il fatto che il primo piano, quello che dovrebbe spiegare il fondo reale, è più confuso del reale stesso: nel quadro la New York alla finestra sembra addirittura più ordinata e rasserenata nel suo significato rispetto allo spazio che dovrebbe darle senso, quello degli strumenti di misurazione.
Insomma, che il mistero, visto come complessità anche della sua spiegazione, rimanga in fondo in fondo sempre mistero? Che il nostro tentativo di interpretare, dare senso, misurare, spiegare sia ultimamente infinito? Semplicemente, senza fine?
Queste possibili inferenze sono uno dei motivi che rendono affascinanti questo pittore e spiegano forse perché in qualche modo è “passato” nella coscienza collettiva, divenendo un elemento condiviso della nostra storia e cultura. Non occorrono altro che occhi e disponibilità alla domanda e al paragone con la sua opera per iniziare a comprenderlo, perché comprendendo l’artista si comprende se stessi. Per il resto è sufficiente un breve tragitto in treno fino a Bologna.
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