Una mostra-evento dell’anno che viaggia verso la sua ultima curva è costituita dalla ricca e circostanziata esposizione che il Palazzo Reale di Milano tributa al pittore italiano Giorgio De Chirico, a partire dal 25 settembre. Si tratta di una mostra con riferimenti stilistico-cronologici ben precisi: cominciamo a vedere il De Chirico della sperimentazione internazionalista nei primi anni Dieci e ne seguiamo i passi fino all’Italia del 1940. Poco meno di un trentennio, il che non costituisce una vera e propria opera omnia. In fondo, abbiamo tracce del genio artistico anche per un brevissimo scorcio precedente e per almeno un trentennio successivo.
E tuttavia questo segmento è la migliore unità di misura per trovare un filo conduttore negli stili e nei dipinti: pescare dopo significa comunque comparare al pregresso. Se esiste un “canone De Chirico”, e non dubitiamo esista una cifra esclusivamente sua e trasversale all’epoca, è negli anni preferiti dalla mostra che giunge a maturazione tecnica, specialistica ed estetica. Sul piano prospettico la rivoluzione silenziosa dell’arte di De Chirico pare sostanziarsi nella sospensione dell’attimo, sicché la desolazione del momento possa farsi narrazione senza vicenda, studio degli effetti prima del compimento dell’atto (anche quello rilevante sul piano affettivo, legale, sostanziale).
Le “Muse Inquietanti” del 1918 sorvegliano un paesaggio simile a quello che si stagliava nella “Piazza d’Italia” del 1913: ora, però, s’affacciano, accanto agli imperituri motivi classici degli archi e delle colonne, i tormenti dei capannoni industriali sullo sfondo e gli armamenti di una guerra combattuta amaramente da volontario. “La malinconia della partenza” del 1916 è l’anello di congiunzione tra i due stati: non importa se trincea o lavoro sia la meta, l’inquietudine che smuove il viaggio infiamma il cuore anche quando l’artista è imprigionato nella sua instabile stasi (il singolare ossimoro de “L’incertezza del poeta”, quando con piglio autocritico s’ammette che l’esito di quella cultura assimilata e di quel travaglio vissuto possa essere non più che… un casco di banane!).
Queste feconde contraddizioni conducono De Chirico al centro della poetica dell’arte novecentesca, e oltre. Nato in Grecia da genitori nativi di Costantinopoli, nel 1929 dà alle stampe un fondamentale scritto, a metà tra il saggio, l’autobiografia, il romanzo e il monologo, Ebdomero, che contamina le arti figurative con le suggestioni colte di Joyce e Pirandello. Quell’involontario manifesto, trapunto di allucinazioni crude e pensieri mistici, spiritualità e carne, dà forza tanto alla sua prospettiva devota e cristiana quanto alla sua onnivora ricerca culturale. Negli stessi anni, quando il fascismo impone il dietrofront dai talora sguaiati eccessi futuristi (gli anni del Laterano, della Legge sui Culti ammessi, della modificazione corporativa, simbolica e istituzionale del Regno), insoddisfatto in politica il pittore si troverà comunque a suo agio nel battere la via del neoclassicismo. Non a imitazione di quello settecentesco maturo, ma con la verve e la curiosità dei suoi giorni e dei suoi gusti. Come ben dimostra il dipinto de “Gli Archeologi” non c’è in De Chirico la ricordata istanza palingenetica futurista, che aveva ormai assunto toni forzosi, ma assimilazione di senso e rielaborazione durativa.
Il tema costante e cruciale nell’opera del Nostro sembra essere allora la collocazione dell’artista non già rispetto al proprio tempo, ma riguardo al prodotto del suo ingegno. Non è un caso che nella densa ma forse poco sistematica produzione saggistica il pittore ripetutamente abbia incrociato il rapporto tra l’arte e la politica, addivenendo a una soluzione insieme metafisica e spietatamente concreta: la capacità e la necessità di alimentare il lavoro dell’uomo di arti a prescindere dal regime di governo del suo stato e dalla maggioranza politica del suo paese. Lo stesso rovello senza tempo innerva l’anima dell’artista e ne alimenta le fatiche, anche se ciò non produce una secessione dal mondo: al contrario, l’indifferenza alla mera contingenza è il presupposto ineliminabile alla presenza dell’arte nella storia. Nessuno spazio alla reiterazione del senso comune, nessuna concessione alla vincolatività della razionalità formale. La trascendenza torna così al suo scopo originario: superare l’effetto prodotto dalla condotta umana e ricondurre a sistema ciò che sistema non ha e non è.
Se volessimo investigare il talento di De Chirico secondo i codici interpretativi dell’ermeneutica giuridica dovremmo concluderne che alla metafisica di De Chirico interessa relativamente poco la cornice giuspubblicistica, fatta da rapporti di forza scritti dall’attualità mutevole, ma la causa giusprivatistica che muove in uno spazio universale la soggettività umana.
L’abbraccio malinconico e dolce di “Ettore e Andromaca” non è melassa informe, ma indecifrabile reticolo del cuore.