È ancora per qualche settimana a Milano, presso il Museo Diocesano ai chiostri di Piazza Sant’Eustorgio, una meravigliosa mostra dedicata a Robert Doisneau (1912-1994), in oltre un centinaio di scatti, che danno vita a un lemmario minimo dell’arte fotografica del Nostro. È stato un vivace ragazzo di Gentilly, borgo nella Valle della Marna, cittadella dove abbinava temperamento artistico e primi studi. E il suo sguardo incantato e incantevole su Parigi avrà sempre la suggestione dell’approdo alla metropoli, della meraviglia per la grandezza: l’incommensurabile della città cosmopolita, fatta di tante piccole storie che vengono inglobate in una tela più grande. È come la mappa di una ferrovia ramificata, un reticolato molto fitto che per presentarsi allo sguardo ha bisogno di venire ad esistenza tramite un’imprescindibile costellazione di piccoli punti, ciascuno essenziale.
A differenza del grande poeta e scrittore italiano Giacomo Leopardi, che nel secolo precedente tornava deluso dal viaggio romano accostando l’Urbe a una grande Recanati (il suo borghetto natio), per Doisneau questa enormità fatta di particolari minutissimi non è mai afona e atona. Si rinnova, piuttosto, ogni volta proprio cercando la tenerezza ilare e nuda del particolare che si mimetizza a prima vista.
Il fotografo francese ha una vita ben più avventurosa di quanto sembri dimostrare l’essenziale pulizia apparentemente ordinaria della sua rispettosa mitezza verso il soggetto fotografato. È un uomo che ha combattuto nella Resistenza francese, seppure dando il maggior apporto (curiosa anticipazione dei suoi destini) nella contraffazione certosina di documenti d’identità, proprio attraverso la manipolazione e l’inquadratura di cose, volti e provenienze. Sarà un viaggiatore internazionale, tornerà a vedere le devastazioni della guerra per oltre un quarantennio: sentendone la repulsione, ma specularmente l’attrattività nella piccola storia della sofferenza quotidiana. Appassionato di periferie, accanito girovago tra bettole, caffè, crocicchi, spiazzi, vichi. Non è un poeta maledetto, insomma, ma il suo pedigree da giovane curioso che assalisce con gli occhi la Ville immensa, nelle sue vene e nei suoi dotti più nascosti, lo iscrive con mordace pertinenza in un filone ben preciso.
La sua prima raccolta edita, guarda caso, è dedicata alle banlieues e fondamentalmente non abbandonerà mai lo sguardo preferenziale su Parigi, nonostante le molteplici traiettorie di vita e lavoro. Il Doisneau fotografo intreccia con Parigi lo stesso amore sulla lunga durata che sarà centrale nei diari del filosofo Edgar Morin: una costante interrogazione di senso, senza nessuna pretesa impositiva di risposte.
La grandezza nel Nostro ha poi a che fare con una debordante brillantezza d’intuito: gli scatti sono difficilmente preparati “a freddo”, spesso arrivano come istantanee che catturano un momento e solo quel momento. Il “plus” del momento giusto. La mostra milanese lo ricorda e celebra con intelligenza, dando rilievo ai grandi snodi tematici del suo genio: guerra e amore, miseria e oblio, speranza e bontà, gioia e dolcezza, sull’asse armonico della contraddizione tra antinomie e sinonimie. L’immaginario di più generazioni vi si infila con trasporto e appropriatezza insieme: baci e bambini, negozianti e pendolari, anziani e prostitute, soldati e accattoni, vi danzano su. E nulla è provvisorio, nonostante il furto di istanti che continuamente propone la sua estetica: c’è, allo scavo delle intenzioni, la favolistica fragilità di ciascuno.
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