Ma che vuol dire “Art Brut”? Nel 1949, alla prima mostra a Parigi di opere di Art Brut, Jean Dubuffet (1901-1985) la definì così: “Un’operazione artistica pura, cruda, reinventata in tutte le sue fasi dal suo autore, basandosi esclusivamente sui propri impulsi”. Accantonando i dettami della cultura ufficiale, il pittore e scultore francese è andato alla ricerca dei cosiddetti outsider, raccogliendo per più di 30 anni le loro opere per fondare nel 1976 il Museo di Losanna, in cui si può ammirare un’arte “libera dalle norme e dai precetti di una cultura da lui ritenuta asfissiante”. E chi più di colui che il mondo giudica folle può considerarsi totalmente libero di esprimersi come sente e come vuole, solo che gli si diano in mano pennelli, carta o qualunque materiale da reinventare? Perché, come afferma proprio Dubuffet, “la follia allevia il suo uomo, gli dà le ali e lo aiuta nella veggenza”. Ecco perché molti oggetti e dipinti esposti al Mudec di Milano (fino al 16 febbraio), come nel museo di Losanna da cui provengono, sono opera di degenti di ospedali psichiatrici.
Il pittore francese è infatti convinto che i loro meccanismi di creazione artistica siano gli stessi di ogni persona reputata normale. E, d’altra parte, “questa distinzione tra normale e anormale è abbastanza inafferrabile: chi è normale?”, sottolinea con forza il fondatore dell’Art Brut. In effetti, l’estrema tensione richiesta dall’ispirazione artistica può mai essere considerata normale? Genio e sregolatezza, insomma: così risuona nella mente il celebre binomio di Dumas mentre seguiamo il percorso della mostra, che conferma la visione assolutamente originale di Dubuffet: “Piuttosto, bisogna guardare le cose molte volte. E ogni volta cambiando punto di vista, mai lo stesso punto di vista per due volte. Guardarle una volta dall’alto, una volta dal basso, una volta di traverso – soprattutto di traverso”. È proprio quello che il visitatore è quasi costretto a fare mentre s’interroga su cosa sia davvero arte, soprattutto se ha visto opere di arte contemporanea (come i volti e gli occhi di Picasso, qui riprodotti da autori sconosciuti che sicuramente non hanno mai ammirato un suo quadro), o dell’arte cosiddetta “primitiva” o ancora dell’osannato surrealismo.
Per il pioniere dell’Art Brut la funzione artistica è sempre la stessa, non c’è differenza tra “arte dei folli, dei dispeptici o dei malati al ginocchio”. Insomma, è messa in questione alla radice la definizione stessa di opera d’arte e quindi del diritto dei critici di definirla tale. Per questo Dubuffet mette insieme, nella sua collezione, lavori di persone ricoverate in istituti psichiatrici (giustamente forniti di laboratori di pittura), di detenuti e detenute, di marginali, solitari o reietti in cui – a suo avviso – si esprime una creatività non legata ai condizionamenti sociali e culturali. In tal modo l’Art Brut favorisce e accoglie anche l’invenzione più radicale, è come “una forma di resistenza e un antidoto”. Per questo forse, o anche per l’effettiva meraviglia suscitata da tanti lavori esposti, la mostra del Mudec ha successo nella Milano di oggi, che si accosta per la prima volta a un’arte ben conosciuta e apprezzata nel Nord Europa, ma quasi estranea al grande pubblico in Italia.
Un’arte grezza, pura, non filtrata, che all’osservatore superficiale può apparire dilettantesca, ma in realtà ha in sé la potenza di chi attraverso il suo lavoro vuole esprimere se stesso, quasi per salvarsi. Leggendo le biografie dei diversi autori, infatti, colpiscono i drammi personali di coloro che, orfani in tenera età, si sono allontanati da casa per lavorare in luoghi ignoti, o peggio spediti al fronte per combattere un’incomprensibile guerra. Preda di fantasmi terribili e dolori profondi, hanno trovato nei colori, nella pietra o nel legno lavorati, negli oggetti combinati insieme in modi fantastici, una via di salvezza e un orizzonte nuovo, accessibile in parte anche a noi. La necessità vitale di esprimersi apre dunque la possibilità di far risuonare la propria voce a chiunque? L’Art Brut non è certo un inno al dilettantismo, piuttosto l’invito a risalire all’“anima nuda”, all’espressione libera e incontaminata, estranea alle necessità del mercato o meglio alle malie delle mode, ma frutto di chi cerca in sé la bellezza e forse la verità. Un racconto personale disarmante per la sua immediatezza, che pur richiede tanto impegno e lavoro. Utilizzando materiali anche casuali, per la precarietà delle condizioni di vita.
L’esposizione abbraccia cinque continenti, e alcune opere legate ai temi del corpo e delle credenze sono di particolare impatto. Anche la tela Hôtel du Cantal, dello stesso Dubuffet, coloratissima e irridente rappresentazione degli albori della civiltà dei consumi, o la pietra lavica Barbu Müller, attribuita ad Antoune Rabany, non lasciano indifferenti. Per non parlare delle sculture mobili in legno e altri materiali di Émile Ratier, ideate da un uomo depresso perché quasi cieco, ma straordinariamente ingegnoso. Incredibile poi la precisione millimetrica delle decorazioni dell’olio su tela Composition symbolique. Amour pour l’humanité di Augustin Lesage (minatore francese chiamato alla pittura da una voce misteriosa sentita nel buio dei cunicoli); ci stupisce anche Charles Boussion che realizza con pennarelli e evidenziatori l’affascinante Icône revisitée Vierge noire à l’enfant Jésus. E che dire poi di fronte alla Crocefissione di Gesù Cristo di Adolf Wölfli, armoniosamente adornata con numeri, lettere, note, quei segni con cui ha costruito la sua opera colossale di 25mila pagine, ricca di disegni, composizioni musicali e scritti? La diagnosi di schizofrenia non ha impedito al suo psichiatra di riconoscerne il talento, l’autentica arte.
Quello di Dubuffet e dell’Art Brut è dunque un viaggio stupefacente nella mente e nel cuore dell’uomo, tanto più significativo per noi quanto più non siamo legati a pregiudizi culturali e artistici e siamo capaci di vera compassione umana. Perché qui l’arte conserva tutto il suo mistero insondabile, impregnato della sofferenza e del desiderio lacerante di libertà, che appartiene a ciascuno di noi.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.